“L’America perde potere, avremo un presidente dimezzato”

by Sergio Segio | 6 Novembre 2012 8:36

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«La grande incognita che pesa sul voto di oggi, sull’America e sul mondo, è Mitt Romney: se infatti di Obama già  conosciamo la politica, la propensione alla diplomazia, nessuno sa definire con certezza l’ex governatore del Massachusetts. Sarà  un uomo del centro, come lo era a capo di uno Stato liberal? Si comporterà  da uomo d’affari, alla maniera dei Rockefeller repubblicani? Oppure sarà  un George W. Bush all’ennesima potenza, e riaprirà  le porte ai neocon? Il vero Romney alzi la mano!». Se si ascolta Charles Kupchan, ex consigliere per la sicurezza nazionale di Clinton, esperto al Council on Foreign Relations, il “mistero Romney” verrà  risolto quando e se si insedierà  nello Studio ovale. Però, secondo Kupchan, «c’è un importante “però”».
Quale, professore?
«Che, alla fine dei conti – vincano Romney o Obama – entrambi dovranno adeguarsi a quel che detta il mondo, agli equilibri all’interno dei rispettivi partiti. Perché la verità  è questa: il prossimo inquilino della Casa Bianca sarà  il primo vero presidente del dopo-Guerra fredda e del Ventunesimo secolo».
Secondo lei, la politica americana è in ritardo?
«Ha perso due decenni, impegnata all’inizio con il crollo dell’Urss, poi dell’ex Jugoslavia. L’ultima decade, in più, è stata segnata dagli strascichi dell’11 settembre. Obama finora ha ripulito il caos lasciato da Bush. Chi s’insedierà  in gennaio, potrà  guardarsi intorno per la prima volta e fare i conti con un mondo diverso, dove l’America non ha più la stessa parte. Persino Romney in versione “Bush 2.0” dovrà  adattarsi.».
Cosa glielo fa pensare?
«Da Romney all’inizio mi aspetterei una politica estera aggressiva, militare. Ma non funzionerebbe: nemmeno i repubblicani vogliono consegnare il 4 per cento del Pil alla Difesa, trasformare il Medio Oriente in un bastione di democrazia imposta dagli Usa, lanciarsi in avventure come l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia».
Che parte deve ritagliare per l’America il prossimo presidente?
«Deve rassegnarsi alla perdita di una quota sostanziosa del potere globale, condividerlo con le potenze emergenti, ridisegnare istituzioni corrispondenti a una nuova architettura globale in grado di salvaguardare la stabilità . L’egemonia dell’Occidente è tramontata. All’interno di questo quadro, si articolano altre priorità ».
Ad esempio?
«L’Iran: sarà  il primo dossier, il più rovente. Bisognerà  affrettare il dialogo con Teheran: le possibilità  di un’intesa diplomatica sono buone, ma lo spiraglio si chiuderà  entro breve. Senza un accordo sul programma nucleare da qui alla primavera, le probabilità  di un attacco militare da parte degli Stati Uniti sono altissime».
Anche se Obama verrà  rieletto?
«La proposizione di “un Iran nucleare inaccettabile” vale per entrambi. Israele non aspetterà  che le scorte di uranio aumentino. Chiunque, mi creda, preferisce la diplomazia alla guerra».
E in Medio Oriente che sfide si prospettano?
«Siamo soltanto all’inizio di un periodo molto agitato. Dall’Egitto alla Turchia alla Siria, avanzano forze incerte. L’islamismo è ovunque in ascesa, e non ne conosciamo l’identità : sarà  pluralista e tollerante, oppure il contrario? Washington ha perso i suoi grandi alleati, ha scarsa influenza. Però, ci siamo impantanati troppo a lungo in Medio Oriente. C’è un altro mondo che ci aspetta».
Si riferisce all’Asia?
«Proprio così. L’America deve prepararsi all’ascesa della Cina, esercitarsi in un delicato equilibrismo: trattare nel campo commerciale ma anche stabilire limiti invalicabili riguardo alla sicurezza. Dovrà  espandere la propria presenza nella regione, approfondire i legami con i Paesi che temono l’avanzata cinese: Filippine, Giappone, Corea, Singapore, Malaysia, Indonesia…».
Come trattare con l’Europa e la Russia?
«Si spera che Putin stemperi il nazionalismo che forse scaturisce dall’incertezza della leadership politica. Quanto all’Europa, l’America può poco: l’instabilità  mette a rischio la ripresa mondiale. Resta il cauto ottimismo che il peggio sia passato».
Questo vale anche per l’economia americana?
«Ecco, torniamo al punto centrale: chiunque sia il presidente, deve prima mettere ordine in America. Far ripartire l’economia, risolvere le fratture ideologiche che paralizzano il sistema politico. Infatti, se l’America ha le mani legate in casa propria, difficilmente potrà  destreggiarsi con efficacia nel mondo».

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