by Sergio Segio | 22 Novembre 2012 6:00
SONO leggi che parlano di figli, di famiglia, di sentimenti, di parità tra i sessi, di cittadinanza. Di amori che finiscono e di nuovi matrimoni, di bambini contesi, di ragazzi “2G” italiani ma non italiani, di omosessualità . Riforme che toccano corde profonde, delicate, e finiscono invece legislatura dopo legislatura nel dimenticatoio della politica, nei cassetti delle commissioni parlamentari, nell’oblio dei provvedimenti “mai calendarizzati”. Dalla possibilità di dare ai figli il cognome della madre al divorzio breve, dall’omofobia di nuovo affossata pochi giorni fa da Lega, Pdl e Udc alla riforma dell’affido condiviso, dalla cittadinanza per i bambini immigrati al tribunale unico per la famiglia, anche la stagione del governo dei tecnici, con un Parlamento in tregua armata, si chiuderà senza che nessuna di queste leggi venga approvata. È il diritto di famiglia ad uscirne a pezzi, sepolto dalle urgenze economiche, da veti etici e religiosi, e forse dal disinteresse. Eppure sono leggi che riguardano milioni di persone, in gran parte bambini, e spesso servono a ratificare cambiamenti già presenti e profondi nella società e quasi in tutto il resto d’Europa.
Con lo scioglimento delle Camere alle porte, l’ultima legge che rischia l’oblio è quella – attesissima – sull’equiparazione dei figli naturali a quelli legittimi. Dice in sostanza e con parole scarne che i “figli sono tutti uguali”, nati o meno all’interno di un matrimonio. E tutti (i figli) hanno diritto ad avere le stesse relazioni di parentela, gli stessi diritti patrimoniali, mentre oggi i bambini nati da unioni more uxorio non hanno, per la legge, né nonni né zii e possono ereditare soltanto dai genitori. La legge potrebbe cambiare la vita di oltre un milione di coppie di fatto, nell’80 per cento dei casi già famiglie, ma la discussione in aula, prevista all’inizio di novembre, è slittata ancora e calendarizzata, in extremis, dal presidente Fini soltanto il 26 novembre prossimo. Ma è davvero una corsa contro il tempo, perché basterà la presentazione di un solo emendamento perché il testo debba tornare al Senato.
È netta e decisa Alessandra Mussolini, presidente della commissione Infanzia della Camera. «La legge deve essere votata così com’è, altrimenti chiunque ne proporrà una modifica si assumerà poi la responsabilità di vederla affossata e magari dimenticata nel passaggio della legislatura. La verità è che queste norme importanti, delicate, hanno una vita difficilissima in Parlamento, perché del caos totale in cui si trovano migliaia di bambini italiani non importa nulla a nessuno». L’accordo non è affatto scontato: nel passaggio al Senato, al testo licenziato dalla Camera sono stati aggiunti due articoli. Sensibili. Difficili. Il primo riguarda la possibilità di “legittimare” i bambini nati da un rapporto incestuoso, e il secondo prevede che tutte le contese che riguardano i “figli naturali” siano gestite, come nel caso dei figli legittimi, dal tribunale ordinario e non da quello dei minori.
Buona parte di queste leggi scomparse hanno avuto il loro primo iter, quasi sempre una lunga gestazione, nella commissione Giustizia della Camera, presieduta dal 2008 da Giulia Bongiorno, avvocato, deputata di Futuro e Libertà , e dal gennaio 2011 anche madre di Ian, bimbo atteso e desiderato. Dal divorzio breve al diritto per le donne di mettere il proprio cognome ai figli, fino alla durissima battaglia per approvare un testo contro l’omofobia, Giulia Bongiorno ha visto non pochi di questi progetti e disegni di legge scomparire nelle nebbie dei lavori parlamentari. «Forse quella che mi brucia di più riguarda il diritto del cognome materno, che io stessa avevo presentato. Una maggioranza tutta maschile e in nome del maschilismo ha votato contro, l’ha bocciata e fatta arenare in commissione. E visto che in Parlamento i maschi sono numericamente più forti delle donne, la legge si è fermata e ad oggi la considero perduta».
Diverso invece il caso del divorzio breve, la cui riforma prevede, semplicemente, che i tempi di separazione passino da tre anni a due in presenza di figli minori, e ad un anno per le coppie senza figli. Un cambiamento invocato da milioni di italiani: sono 800 mila le coppie in attesa di divorzio, a 25 anni dall’ultima riforma della legge che nel 1987 accorciò la separazione da cinque a tre anni. Da quasi un mese i radicali della Lid, Lega italiana per il divorzio breve, digiunano perché la discussione del testo (faticosamente messo a punto dalla commissione Giustizia della Camera, relatore Maurizio Paniz del Pdl) calendarizzato a giugno e poi “espulso” dai lavori parlamentari, venga rimessa all’ordine del giorno prima della fine della legislatura. Ma oggi come ieri un patto di ferro tra gerarchie ecclesiastiche e spezzoni del centrodestra cerca in tutti i modi di fermare il cammino del testo. «Sembra che siano arrivate pressioni dal Vaticano – ammette Bongiorno – per impedire la discussione in aula». Una discussione che avrebbe potuto davvero, questa volta, portare alla modifica della legge del 1970, visto l’accordo trovato in commissione.
L’elenco non finisce qui. E racconta di un’Italia che torna indietro, che arretra sui diritti civili, che si rifiuta di varare per quattro volte di seguito sanzioni sull’omofobia (cioè razzismo e aggressioni contro le persone omosessuali), mentre in tutta Europa si discute di unioni civili, di nozze e di adozioni gay. «Sono quattro volte che quel testo torna in commissione: una follia. E qui non si parla di matrimoni omosessuali, ma semplicemente dell’estensione della legge Mancino anche ad atti di odio per discriminazione sessuale. La verità – conclude Giulia Bongiorno – è che ci sono molti politici che hanno paura di votare un testo per difendere i diritti delle persone gay. E per bocciarlo, visto che si vergognano della loro arretratezza, non hanno il coraggio di dire che non vogliono una legge contro l’omofobia, e accampano cavilli di ogni tipo…».
Ma forse la legge “non nata” che più peserà sia sul governo dei tecnici che su buona parte del centrosinistra è la mancata approvazione della cittadinanza per i bambini immigrati nati in Italia. Quasi un milione di ragazzi 2G, seconda generazione, italiani in tutto, se non per le origini. È il tanto discusso e ormai irrinunciabile (parole di Fini, e soprattutto del ministro Riccardi) Ius soli, cioè diritto di nascita, o Ius culturae, come lo ha ribattezzato lo stesso ministro Riccardi soltanto due giorni fa, ammettendo però di essere deluso. «Il governo tecnico non aveva nel programma la cittadinanza dei minori stranieri, tema che spetta al Parlamento e sul quale non c’è né armonia né condivisione. Però tra le forze politiche si era formata una maggioranza che sosteneva i diritti dei bambini immigrati, ma questa maggioranza – precisa con amarezza il ministro – non se l’è sentita di andare fino in fondo. E per me tutto ciò è motivo di rammarico, la sensazione di quanto la politica spesso sia chiusa nel Palazzo e lontana dai problemi della gente».
Persone. Coppie. Famiglie. Singoli. Gay. Che chiedono diritti e libertà . Di amarsi, e, se il matrimonio si rompe, di non dover aspettare cinque anni anche se il divorzio è consensuale. Genitori more uxorio che vedono i loro figli ritenuti di serie B da una giurisprudenza arcaica e vetusta. Chissà . Nell’Italia dei pochi figli e sempre più unici, un milione e ottocentomila bambini, ha detto l’Istat nella giornata mondiale dell’infanzia, vivono in “povertà relativa”. Ossia in quella soglia minima di scuola-sanità -alimentazione che da un giorno all’altro potrebbe precipitare nella povertà assoluta. Ma tra le leggi mai nate c’è anche quel piano nazionale sull’infanzia che da tempo molti (molte) parlamentari chiedono di inserire nella legge di stabilità . Stanziare risorse, aiuti, sostegni. Quest’anno il piano non c’è. Ma non è stato espulso né calendarizzato. Non è stato proprio previsto né pensato.
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