by Sergio Segio | 12 Novembre 2012 11:16
A differenza di quanto è successo in Tunisia o Egitto, la risposta alle mobilitazioni sindacali e popolari in Europa non saranno i fucili, ma più probabilmente il muro di gomma dei manganelli della polizia e dell’indifferenza dei poteri reali nei confronti della domanda di diritti e di equità dei lavoratori e dei ceti medi che stanno pagando per intero i costi economici e sociali di una crisi provocata dalla finanza globale. Un conto ingiusto e salatissimo.
Sulle stesse lunghezze d’onda l’iniziativa “Firenze 10+10”, che si è tenuta nel capoluogo toscano dall’8 all’11 novembre e che ha visto migliaia di persone provenienti da numerosi paesi tentare di ritrovare il bandolo della matassa dei Social Forum e di rivitalizzare un movimento altermondialista che, paradossalmente, è al punto più basso della sua forza e vitalità proprio nel momento in cui la storia e le vicende della crisi dimostrano la fondatezza delle sue analisi, portate avanti dal “movimento dei movimenti” nello scorso decennio.
Un primo risultato del meeting fiorentino è la nascita dell’European Progressive Economists Network, un network di economisti promosso da diverse e significative esperienze: Another Road for Europe, con la Campagna Sbilanciamoci! per l’Italia, i francesi di Euromemorandum e Economistes Atterrés e che ha visto la partecipazione, tra gli altri, di Econosphères dal Belgio, Econonuestra dalla Spagna, di Transnational Institute, Critical Political Economy Network e Transform!.
In buona sostanza, un’importante “rete di reti” che in un primo documento propone un drastico rovesciamento di prospettive, mettendo in discussione il fiscal compact, per «difendere la spesa pubblica, il welfare e i redditi» e consentire all’Europa «di assumere un ruolo più forte nello stimolare la domanda, promuovendo il pieno impiego e avviando un nuovo modello di sviluppo equo e sostenibile». Nell’immediato, occorre pensare e imporre «una redistribuzione che riduca le diseguaglianze, e andare verso l’armonizzazione dei regimi di tassazione, mettendo fine alla competizione fiscale, con uno spostamento dell’imposizione dal lavoro verso i profitti e la ricchezza».
Per gli economisti “sgomenti” e critici, «le politiche europee dovrebbero favorire i servizi pubblici e la protezione sociale», mentre vanno difese l’occupazione e la contrattazione collettiva poiché «i diritti del lavoro sono un elemento chiave dei diritti democratici in Europa».
Le altre proposte vanno dall’attribuire alla Banca Centrale Europea una funzione di prestatore di ultima istanza per i titoli di stato all’istituzione di un audit pubblico per la valutazione del debito, dalla tassazione delle transazioni finanziarie al controllo sul movimento dei capitali. Più in generale, si pensa a una radicale conversione ecologica per favorire nuovi modi di produrre e di consumare, a un programma di investimenti per promuovere occupazione di qualità , tutela dei beni comuni, sviluppo sostenibile.
Last but not least il richiamo alla profonda riforma dell’Unione Europea per sostenere la partecipazione dei cittadini, un rafforzamento del ruolo del parlamento e del controllo democratico sulle decisioni fondamentali.
Per gli estensori del documento, la strada maestra e la necessità è quella di «un’alleanza tra società civile, sindacati, movimenti e forze politiche progressiste», la cui finalità è di «portare l’Europa fuori dalla crisi prodotta da neoliberalismo e finanza, e verso una vera democrazia».
Questioni di economia, di ecologia, di società , di welfare, di stili di vita, dunque. Ma, prima e assieme, questioni di vita e di morte.
Degli effetti mortiferi e devastanti della crisi e delle ricette avvelenate della Troika abbiamo già accennato: in Grecia (Il mercato che uccide[1]), in Italia (Primavere arabe e autunni italiani[2], Il crimine e il suo profitto[3]).
In un recente reportage dalla Spagna, Adriano Sofri ci ha raccontato il dramma delle 350.000 famiglie già buttate fuori dalle proprie case, mentre altre centinaia di migliaia saranno sfrattate nel prossimo futuro a causa dell’insolvenza sui mutui e dell’indebitamento con le banche. Folle intere di donne, uomini, anziani e bambini buttati sul lastrico affinché il castello di carte impazzito della finanza e dei profitti miliardari possa essere ricostruito e continuare come nulla fosse, dirottando la rovina sui paesi più deboli e sulle persone più fragili. «Abbiamo imparato che i poveri vanno in rovina mentre gli Stati o le banche fanno default», commenta amaro Sofri (cfr. “Così abbiamo perso la casa” spagnoli sempre più disperati e il suicidio diventa epidemia[4]).
Si stima che negli USA la bolla immobiliare abbia provocato la perdita di undici milioni di case, confiscate dalle banche creditrici e poi svendute agli speculatori o lasciate andare in malora, creando città fantasma e famiglie distrutte.
E lasciando dietro di sé uno stuolo immane di cadaveri.
È stato calcolato che i suicidi dovuti alla crisi negli Stati Uniti dal 2008 al 2010 sono stati 4.750, un numero superiore alle vittime dell’11 settembre. Il tasso dei suicidi negli Stati Uniti è aumentato nel triennio 2008-2010 a una velocità quattro volte maggiore rispetto agli anni precedenti la recessione, secondo la recente ricerca pubblicata dall’autorevole “The Lancet” (cfr, The Lancet[5])
Di tutto ciò sui media mainstream (e non solo) non vi è traccia. Spazio e attenzioni sono dedicati per intero all’ultima polemica tra Renzi e Bersani, alla più recente invettiva di Grillo, all’ennesima furbata di Di Pietro, all’estremo cerchiobottismo di Casini, al prosieguo della telenovela delle primarie (vere o finte, civiche o politiche) del PD in Lombardia, dove si è infine scoperto poter esistere un candidato più candidato degli altri, come nella Fattoria degli animali di George Orwell, che non abbisogna di assoggettarsi al rito democratico.
Non c’è tempo e non c’è inchiostro per riferire dell’oppressione e ingiustizia che vive il 99% dell’umanità , per raccontare che dal basso della società , stanno nascendo movimenti che non accettano questo stato di cose e che fanno proposte concrete di cambiamento, tese a una maggior giustizia sociale, alla conversione ecologica dell’economia e alla riduzione delle esplosive diseguaglianze create da due decenni di ultraliberismo e di turbocapitalismo.
Pare proprio di assistere all’eterna e drammatica favola di un sistema (e dei suoi custodi, sacerdoti e gazzettieri) alacremente impegnato a segare il ramo su cui è seduta l’umanità intera.
Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2012/11/prove-tecniche-di-movimento/
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