Piove di più, nessuno cura i fiumi così il maltempo diventa una tragedia

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ROMA — È una tempesta perfetta. Le piogge si intensificano, la porzione di territorio urbanizzato in Italia guadagna ogni anno l’equivalente di due città  di Roma, i fiumi vengono costretti negli argini perché non straripino, i loro sedimenti si accumulano nell’alveo e sollevano il livello dell’acqua, aumentandone l’energia in caso di esondazione. Perfino i campi diventano più estesi e perdono i fossi di scolo che da sempre li circondavano. In Toscana e Liguria fiumi ripidi e letti piccoli moltiplicano il rischio in caso di acquazzoni. Nel frattempo le mappe del rischio restano ferme al passato, mentre le legislazioni fanno addirittura passi indietro.
Il risultato? Oltre 120 frane e inondazioni tra il 2005 e il 2011, con 200 vittime e danni stimati sopra al miliardo all’anno (due volte e mezzo quanto si spende per la prevenzione). Il mix degli interventi con il contagocce e del rischio che aumenta (sia per il clima che per l’urbanizzazione) punta dritto verso un unico esito prevedibile: l’assicurazione obbligatoria, che ogni tanto si affaccia in una bozza di legge e che ieri è stata rievocata dal capo della Protezione civile.
Il rischio idrogeologico in Italia è una tenaglia che stringe da molti lati. «Buona parte dell’urbanizzazione, soprattutto quella selvaggia, è avvenuta intorno agli anni ’60 e ’70, l’epoca in cui la piovosità  è stata ai minimi del secolo. Ponti, argini e case sono stati costruiti senza tenere conto del problema dell’acqua. Oggi ci ritroviamo con infrastrutture del tutto inadeguate» spiega Paolo Paronuzzi, direttore di un master sul rischio idrogeologico all’università  di Udine.
«Le fognature delle città  non sono progettate per smaltire precipitazioni simili. A Genova i fiumi sono costretti in spazi angusti, o addirittura dirottati sottoterra. Se si gonfiano, cosa si può fare? Le uniche soluzioni che mi vengono in mente sono opere radicali, di portata paragonabile a quella del Mose a Venezia» dice Fausto Guzzetti, che al Cnr dirige l’Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica. «La legislazione del 1989 aggiunge Gian Vito Graziano, presidente del Consiglio nazionale dei geologi – divideva il territorio italiano in bacini idrografici, ognuno dei quali ricadeva sotto il controllo di un’autorità  di bacino. Nel 2006 abbiamo recepito una direttiva europea che si occupa di ambiente in senso lato e dedica solo un capitolo al rischio idrogeologico. È una norma più adatta ai paesi con fiumi molto grandi. Il risultato in Italia è la frammentazione di competenze e responsabilità . Di fronte a una situazione di rischio non si sa nemmeno chi debba intervenire».
Nel 2010 il Consiglio nazionale dei geologi ha pubblicato uno studio secondo cui 29.500 chilometri quadrati con quasi 6 milioni di abitanti sono ad alto rischio idrogeologico. La minaccia di frane o alluvioni riguarda 1,3 milioni di edifici, fra cui 6mila scuole e 531 ospedali. Dal dopoguerra i disastri idrogeologici sono costati 52 miliardi, una cifra che nell’ultimo ventennio è passata da 800 milioni medi annui a 1,2 miliardi. Secondo il ministero dell’Ambiente, per mettere in sicurezza tutto il territorio italiano servirebbero 40 miliardi.


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