Pier Paolo Pasolini un profeta corsaro

by Sergio Segio | 27 Novembre 2012 15:03

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VI È UNA RICORRENTE VOCAZIONE A SMINUIRE IL VALORE TEORETICO DEGLI SCRITTI DI PASOLINI. ANCHE TRA CHI NON NE DISCONOSCE LA GRANDEZZA ARTISTICA, SPESSO SI SENTE RIPETERE CHE LE SUE ANALISI ERANO FRUTTO DI UNA VISIONE PURAMENTE POETICA. Fu Pasolini stesso, del resto, a capirlo e a scrivere nel 1966: «Mi offende molto che tutto quello che faccio e dico venga ricondotto a spiegare il mio stile. È un modo di esorcizzarmi, e forse di darmi dello stupido: uno stupido nella vita, che è magari bravo nel suo lavoro. È quindi anche un modo per escludermi e di mettermi a tacere».
Accade invece che persino dai cultori di discipline specialistiche si parla di lui come di chi, pur senza possedere i ferri del mestiere, ha intuito lucidamente la presenza di nodi e questioni di particolare rilievo. Esemplare, in tal senso, lo studio che qualche anno fa un importante economista come Giulio Sapelli ha dedicato al poeta-corsaro: Modernizzazione senza sviluppo. Il capitalismo secondo Pasolini (Bruno Mondadori). Un saggio di grande spessore che, se non sbaglio, non ha avuto al suo apparire l’attenzione che meritava, e che è stato quasi del tutto trascurato dai tanti esegeti dell’artista. Un saggio in cui uno studioso di economia mette in rilievo come anche le analisi economiche, sociologiche e antropologiche di Pasolini siano in genere molto profonde.
Già  nei primi anni 60 Pasolini è forse il solo intellettuale italiano a comprendere il senso e la portata delle trasformazioni in atto e a cogliere i pericoli insiti nel neocapitalismo italiano: un «modello di sviluppo» basato sulla quantità  più che sulla qualità , sull’accumulazione di beni superflui più che su un progresso culturale e morale, e che, a differenza di Paesi come la Gran Bretagna e la Francia, si è imposto non gradualmente nel corso di secoli ma violentemente dall’alto in pochi anni. Con il risultato di distruggere culture, stili di vita, linguaggi, a vantaggio di un nuovo e uniforme modello umano di riferimento, quello piccolo-borghese (veicolato ideologicamente qui Pasolini ha un’intuizione geniale prima di tutto dalla televisione, cui si deve la nostra vera unificazione linguistica).
Sapelli mette benissimo in luce che Pasolini, pur amandoli, rifiuta gli stilemi figurativi e raffigurativi del neorealismo, che criticavano la miseria come condizione materiale, perché la sua critica è invece rivolta prima di tutto alla miseria spirituale, morale, frutto della modernizzazione accelerata e della distruzione antropologica. E che prima di Ragazzi di vita nessuno in Italia aveva mai scritto un romanzo che sembrasse un prodotto estraneo al mondo letterario. «I romanzi di Pasolini degli anni cinquanta dice benissimo Sapelli sono molto simili a quelli della beat generation americana».
IL MALESSERE SOCIALE
Anche le nuove forme di malessere sociale che si accompagnarono alla rivoluzione studentesca del Sessantotto sono, per Pasolini, frutto di questa modernizzazione imposta dall’alto. Pasolini intuisce che il ’68 italiano è in realtà  una rivoluzione di classi medie, nella quale la borghesia si rivolta contro se stessa e non ha più bisogno né del rapporto con gli intellettuali né del rispetto per la scienza, ma solo di distruzione e violenza. Queste considerazioni aggiunge Sapelli «rivelano la grandezza dell’analisi antropologica di Pasolini: la piccola borghesia mima i comportamenti che storicamente sono stati della destra, convinta di appartenere a uno schieramento di sinistra, combattendo la destra e la sinistra storica, in particolar modo i comunisti, in quanto anch’essi fanno parte del vecchio sistema e aderiscono a vecchie norme».
Parole, per Sapelli, «straordinariamente preveggenti», in quanto effettivamente i gruppi clandestini hanno finito per codificarsi, per fissarsi, mentre comunemente, durante tutti gli anni settanta, «si è ritenuto che il terrorismo fosse un fenomeno di estremismo, di instabilità ».
Anche il Sessantotto italiano è dunque un fenomeno di modernizzazione senza sviluppo: la politica si separa dall’intelligenza culturale e diventa pura lotta per il potere. In Scritti corsari e nel romanzo postumo Petrolio Pasolini va ancora più a fondo nell’analisi del «modello italiano» (basti leggere il mirabile «articolo delle lucciole»). Il razzismo dell’edonismo interclassista sta nel fatto che l’unico modello accettato è quello della normalità  piccolo-borghese (perfettamente veicolata dalla televisione e dalla pubblicità ). Ma il risultato (il tema verrà  successivamente studiato solo da un antropologo francese, Georges Ohnet) è penoso, perché un giovane povero di Roma, ad esempio, non è in grado di realizzare quei modelli.
Non solo dunque Pasolini si distacca dal neorealismo, ma è anche lontano da ogni concezione che concepisca l’uguaglianza come livellamento, spirituale prima e più che materiale. E che identifichi il progresso con lo sviluppo. Ma allora è anche più chiaro perché Pasolini fu avversato da tanta parte della sinistra. E perché è invece oggi così attuale. Forse che, per fare solo un esempio, la dolorosa vicenda dell’Ilva di Taranto non parla proprio di questi problemi? Il discorso non cambia se passiamo dall’economia alla politica. In Segreto di Stato (Einaudi) il senatore Giovanni Pellegrino, all’epoca presidente della Commissione parlamentare sulle stragi, ricorda che Pasolini, in uno dei suoi celebri «scritti corsari», notava, pochi mesi dopo la strage del treno Italicus (1974), che, se le stragi del 1969 erano state anticomuniste, quelle del 1974 erano antifasciste. «Dal momento che sostiene Pellegrino mi pare molto probabile che anche la strage di Brescia sia stata compiuta nel maggio 1974 da uomini della destra radicale, continuavo a domandarmi che cosa volesse dire Pasolini nel sottolineare la logica antifascista…». Ma oggi continua Pellegrino «sono in grado di dare una risposta». Il senatore chiarisce che innanzitutto si devono identificare i diversi obiettivi che avevano i vari protagonisti di quella strategia. L’obiettivo della manovalanza neofascista era quello di provocare allarme e di fare in modo che, al dilagare della protesta studentesca e operaia, si reagisse con una risposta d’ordine. Le loro azioni, quindi, erano funzionali al progetto di «un vero e proprio colpo di Stato». A un secondo livello, quello degli «istigatori», si pensava, invece, di affidare alla tensione lo stesso ruolo che aveva avuto il «tintinnare di sciabole» del 1964: favorire, cioè, uno spostamento in senso conservatore dell’asse politico del Paese. Al terzo livello, quello internazionale, c’erano interessi geopolitici volti a tenere comunque l’Italia in una situazione di tensione e di instabilità  interna. Il tentativo in direzione del colpo di Stato, vero o anche solo minacciato, durò abbastanza poco, sostanzialmente dalla strage di piazza Fontana al fallito golpe Borghese.
IL SANGUE IN PIAZZA
A livello politico, sia interno sia, soprattutto, internazionale, si capì che l’Italia non era la Grecia, che da noi non era importabile il regime dei colonnelli, perché sarebbe scoppiata la guerra civile: un prezzo troppo alto da pagare. «Dunque conclude Pellegrino da quel momento ha inizio una nuova fase, sia pure ovviamente non lineare: quella dello sganciamento dalla manovalanza neofascista. Lentamente, gli uomini della destra radicale sono richiamati all’ordine, si comincia a instillare loro l’idea che un piano golpista non può essere attuato fino in fondo, che è necessario fare un passo indietro. E loro reagiscono. Con una serie di attentati in qualche modo di ritorsione che segneranno la loro fine: li lasceranno fare, probabilmente, proprio per poterli liquidare». Era questa, dunque, l’intuizione di Pasolini. Ma ancora più sbalorditivo, anche per Pellegrino, è che Pasolini era arrivato quasi in tempo reale laddove la Commissione giungerà  solo dopo anni e anni di ricerche.
Cambiamo parzialmente scenario. Il procuratore di Pavia che riaprì l’inchiesta sul caso Mattei stabilendo che la morte del presidente dell’Eni non era stata accidentale ma dovuta al sabotaggio del suo aereo ebbe a dichiarare che, quando lesse Petrolio, rimase scioccato nel rilevare che Pasolini era giunto alle stesse conclusioni della sua lunga inchiesta ma con venticinque anni di anticipo! E che nel romanzo era descritto fin nei minimi particolari l’«impero privato» di Eugenio Cefis, l’uomo che prese il posto di Mattei all’indomani della sua morte. Pasolini aveva compreso il ruolo-chiave di Cefis nell’additare una svolta autoritaria non più basata sulle stragi ma sul restringimento della democrazia e sulla dittatura dell’economia globale e transnazionale. Esattamente i nodi attorno a cui ci dibattiamo in questo momento

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