Per il bene del Mali

by Sergio Segio | 3 Novembre 2012 8:20

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Siamo in un momento cruciale per il Mali: il 12 ottobre, infatti, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha adottato la risoluzione, proposta dalla Francia, che concede 45 giorni di tempo alla Cedeao (Communauté à‰conomique des à‰tats de l’Afrique de l’Ouest) per definire i piani d’intervento armato, volti alla riconquista del nord, attraverso la mobilizzazione di 3.000 soldati e della logistica annessa. Inoltre, si va delineando una data per le elezioni presidenziali, da tenersi nella primavera del 2013; ad esse, in linea di principio, non dovrebbero partecipare i leader del governo provvisorio (Cheikh Modibo Diarra, primo ministro e Diacounda Traoré, capo di stato ad interim) incaricati di gestire la fase di transizione. 
Su questo è altri temi si è tenuto il 29 ottobre all’università  di Roma La Sapienza, in collaborazione con la casa editrice L’Harmattan Italia, il convegno intitolato «Capire il Mali in tempi di crisi», un’occasione per mettere a confronto studiosi, accademici e non, che da anni s’interessano dello stato saheliano, oggigiorno al centro dell’attenzione internazionale. I relatori hanno condiviso i loro percorsi di ricerca con l’intento di analizzare l’evolversi del conflitto politico emerso in Mali dal marzo 2012, in seguito al colpo di stato perpetrato del capitano Sanogo. Con tale atto, i militari reagivano alla debolezza dell’allora presidente Amadou Toumani Touré, di fronte alla ribellione, capeggiata dai tuareg del Mnla (Mouvement National pour la Libération de l’Azawad), in atto nella fascia settentrionale del paese.
Ma la questione maliana (o meglio, «malo-maliana», come ironicamente la definiscono gli osservatori locali) non va letta solo da un’ottica militare; un altro approccio, di apertura al negoziato e al dialogo, a partire dalla conoscenza e dal riconoscersi l’un l’altro come interlocutori, si rivela essenziale.
Un incidente della storia
Come ha sottolineato al convegno di Roma Gaoussou Drabo, ambasciatore del Mali in Italia, se la cultura rende l’uomo qualcosa di diverso da un semplice incidente della storia, è perché costituisce uno strumento sul quale appoggiarsi per capire i problemi, tentando di superarli. Ed è ancora il sapere a permetterci di distinguere l’apparenza dalla realtà , le affermazioni superficiali dai comportamenti effettivi. Nell’Azawad, il reclamarsi delle milizie (Ansar Eddine – Difensori della Fede e Mujao – Mouvement pour l’Unicité et le Jihad en Afrique de l’Ouest) ad un islam salafita, il loro invocare l’applicazione rigida della sharia e l’imporre modelli di vita estranei al contesto sono sovente riconducibili a una conoscenza scarsissima della tradizione teologico-giuridica, elaborata da secoli dagli ulama (dottori della legge). Se una parte dell’Haut Conseil Islamique du Mali ha tentato di trattare con tali gruppi, ben presto – e proprio sul piano religioso – il dibattito si è dimostrato sterile: Mahmoud Dicko, presidente dell’Hci, ha di recente bloccato ogni negoziato col Mujao per le profonde divergenze emerse, in particolare per quanto concerne la necessità  di condannare il terrorismo e di evitare certe modalità  d’imposizione senza criteri della sharia (jeuneafrique.com 18/10/12).
L’immagine dei jihadisti si è fortemente degradata presso le popolazioni tuareg, che danno ormai vita a forme di disobbedienza civile. In occasione della festa musulmana della tabaski, ad esempio, alcune donne di Douentza hanno sfidato l’obbligo di portare il velo; i giovani non esitano più a fumare in pubblico e dichiarano: i jihadisti «bevono, fumano e poi vogliono imporci la sharia»; la distruzione del monumento all’indipendenza di Timbuctù, avvenuta il 27 ottobre, non ha quasi avuto spettatori: «Non intendiamo più assistere, così capiranno che ce ne freghiamo di loro», ha dichiarato un abitante della città  (S. Daniel, ripreso da maliweb.net 30/10/2012).
Un dialogo fecondo ha l’opportunità  d’instaurarsi unicamente laddove la memoria storica non viene cancellata o la cultura autoctona negata. Lo affermano con vigore Laura Faranda e Fabrizio Magnani, antropologi e promotori di un progetto, che beneficia dal 2005 del sostegno dall’università  La Sapienza, dedicato alla salvaguardia degli archivi coloniali del Cercle di Bandiagara. Le carte e i documenti recuperati divengono lo strumento per una presa di coscienza del passato e di analisi del presente, quindi una modalità  di comunicazione col territorio, di ricostruzione comune della storia.
Sull’importanza di valorizzare la tradizione, adeguandola ai tempi, insiste anche Lelia Pisani (associazione Oriss), che – dagli anni ’80 – lavora nel Pays Dogon a contatto coi guaritori locali, interessati a preservare il loro patrimonio magico-terapeutico e, per questo, disponibili a tramandarlo sia col consueto ricorso alla trasmissione orale, sia col ricorso ai mezzi offerti dalla tecnologia moderna (video, registrazioni. ecc.). Per altro, i guaritori dogon sono oggi protagonisti di un florido mercato di vendita di amuleti, a fini protettivi, che i militari maliani inviati nella regione (al confine con il nord occupato) acquistano volentieri.
Con orrore, gli abitanti – al di qua e al di là  della frontiera interna generata dalla crisi politica – guardano alla denigrazione della loro cultura ad opera delle truppe del Mujao: a Douentza, la distruzione di un antico toguna (casa della parola e tribunale) è stata vendicata con la morte del miliziano protagonista del gesto.
L’aver abbattuto la rudimentale costruzione in legno e paglia ha rappresentato un duplice affronto per i dogon, gelosi custodi della loro cultura: da un lato si profanava un luogo sacro alla memoria, dall’altro, si colpiva la sede per eccellenza della giustizia animista, come spiega Marcello Monteleone, magistrato e studioso del processo penale tradizionale, concepito da tale etnia. 
La giustizia presso i dogon
Sebbene il diritto penale sia ormai una prerogativa dello stato inteso in senso moderno, il sistema di giustizia elaborato dai dogon – col suo rimando a rigorosi criteri di ricerca delle prove, di garanzie per le parti in causa e di pubblicità  delle sentenze – offre un insegnamento capitale, la cui validità  trascende il quadro locale. Tale modello giuridico sottolinea infatti l’importanza di una giustizia che deve avere un carattere di riconciliazione, dove il perdono – che il colpevole invoca alla sua vittima o alla famiglia di questa – è un passaggio essenziale per conseguire la pace, al di fuori del semplice risarcimento del danno o della punizione comunque inflitta.
Con tutto ciò, non s’intende promuovere un discorso volto ad esaltare in maniera acritica i valori tradizionali, lo sostiene Alberto Rovelli, missionario dei Padri Bianchi in Mali, il quale spiega come il patrimonio ereditato dagli antenati vada coniugato con le esigenze della modernità , in caso contrario, è la sopraffazione dell’uno sull’altro a prevalere, col rischio che le tenebre finiscano per dominare sulla luce. Ecco il messaggio trasmesso da tante maschere e statue africane. 
Da epoche immemori, le opere d’arte del continente, in Mali e altrove, corrispondono ad oggetti cultuali, il cui significato simbolico trascende l’aspetto estetico; si tratta di strumenti per comunicare con l’universo degli spiriti e degli antenati, figure alle quali si rende omaggio con libagioni ripetute che, poco a poco, ricoprono le statue stesse di una sottile patina composta da materiale eterogeneo (Giovanni Incorpora).
Certo, i problemi del Mali possono sembrare lontani, ma – come rileva la psicopedagogista Rita Finco – non appartengono a un continente destinato a rimanerci estraneo: le migrazioni, la cui causa raramente si restringe a fattori economici, portano da noi, nelle nostre città , i protagonisti e le vittime di tali vicende, col loro retaggio di sofferenza. Come accoglierli, se ne ignoriamo la storia?
* antropologa e responsabile
editoriale L’Harmattan Italia

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