Ore 10.30. Un tornado sconvolge l’Ilva
TARANTO — Due morti di tumore in più saranno forse poca cosa, all’Ilva: una «min…ata», per chi se ne sta fuggiasco al sole dei Caraibi. Ma adesso su questa bestemmia oscena e sulla fabbrica tutta, e sulla città che addosso alla fabbrica vive e respira, si scatena la furia d’un tornado che a Taranto mai nessuno aveva visto, che nemmeno i vecchi pescatori ricordano, «si stava portando via il mare e noi appresso, abbiamo guardato la morte negli occhi!». Un giovane gruista ingoiato dalle onde, trentotto feriti tra cui ventiquattro operai e nove bambini di una scuola di Statte. L’acciaieria più grande d’Europa, già fermata dai giudici, ridotta ormai a un enorme carrozzone paralizzato nella notte tarantina ancora sferzata dal vento. Come una punizione che colpisce gli inermi. Come una tragedia dove la hybris, la superbia di alcuni, diventa colpa collettiva da scontare anche per gli innocenti.
Antonio se ne sta là sul molo, la faccia piena di lacrime e pioggia a guardare il punto dove s’è inabissata la gru su cui lavorava Francesco Zaccaria, 29 anni appena, il suo amico, il suo compagno: «Abbiamo lottato ancora ieri assieme per tornare a lavorare, per avere quei maledetti badge riattivati, e adesso siamo venuti qui a lasciarci la pelle!», si tormenta. Le rabbie e i dolori si incrociano. La fabbrica ferma e la fabbrica piagata si sovrappongono. Vincenzo, stava sull’altra gru: «Cercavo di aggrapparmi alla cabina, ma le mie mani perdevano forza… alla fine sono riuscito a saltare giù. Se no sarei finito come Francesco. Noi sulle gru non ci torniamo». Ha le mani viola, spugnate. Con una decina di compagni resta a scrutare il mare, cocciuto: «Non ce ne andiamo senza il mio amico». I sub avrebbero individuato la cabina della gru di Francesco, a 24 metri di profondità , ma non riescono ad avvicinarsi. Il direttore dell’acciaieria, Adolfo Buffo, riesce solo a strillare nel telefonino: «Un disastro, una cosa devastante. Palazzine sventrate, gru divelte, macchine volate via…», poi fila via nell’ennesima riunione.
Sono appena passate le dieci e mezzo del mattino quando dal mare sale un mostro di nuvole e vento, una colonna nera che taglia lo stabilimento a 200 chilometri l’ora: sferza gli impianti a mare, i parchi minerali, le cokerie, poi il temutissimo altoforno 5 al centro di tante polemiche, e infine si dirige verso Statte, la frazione vicina, e divora la scuola media «Leonardo Da Vinci», ferisce nove bambini, mette per strada una decina di famiglie, fa esplodere una stazione di servizio, «abbiamo almeno quindici milioni di danni», dicono qui. All’Ilva cade una torre di ottanta metri, si leva una nube altissima, crollano capannoni, vengono giù i camini delle batterie 1 e 3. Si vedono fiamme, un lampo immane e accecante, la gente strilla, i videoamatori sobbalzano. Si sparge il panico: «Se salta la fabbrica salta la città ». Seimila operai sono ancora dentro, scappano in molti, le strade sono bloccate e loro fuggono a piedi, come possono. «Ma molti sono rimasti a gestire l’emergenza», dice Bruno Ferrante, il presidente dell’Ilva, indagato come quasi tutti qui, ormai: «La sicurezza ha funzionato benissimo», giura.
E tuttavia non c’è verso di trovare pace: nemmeno questa vendetta che il mare stuprato da mezzo secolo di Ilva si prende sugli umani, vale a pacificare tante anime in guerra perenne. «Non dovevano lavorare oggi sulle gru!», tuona Cataldo Ranieri, sindacalista atipico. L’Ilva gli annuncia querele. Francesca Caliolo sei anni fa ha perso qui suo marito Antonio, una vampata assassina, una delle troppe morti bianche di questi anni. Due in meno, due in più, non cambia molto, potrebbe dire uno come Fabio Riva, il figlio latitante del patron Emilio, in quel bignami di nauseante cinismo che sono le intercettazioni distillate dall’inchiesta sulla fabbrica. Fabio per ora se ne sta alla larga, pare tra Miami e Santo Domingo, ma gli avvocati giurano che tornerà . Francesca sospira: «Che adesso si scateni tutto questo, fa pensare, sì… Dopo quelle frasi. Ma ne fanno le spese i poveracci. Io invece voglio che ai Riva trovino i soldi veri, che i giudici sequestrino tutto».
Quando si decise di dare a Taranto la grande acciaieria, i tarantini erano così contenti che se la sarebbero fatta costruire «persino in piazza della Vittoria», la piazza principale della città , confessò Angelo Monfredi, vecchio sindaco dc. Negli anni Cinquanta c’erano tanta miseria e tanta fame che loro avrebbero accettato qualsiasi cosa. E accolsero questo gigante grande due volte Taranto, che diede ai contadini e ai raccoglitori di cozze la prospettiva d’una dignità diversa, come quella degli operai del nord. È questa la hybris che va punita? Quanto si paga la perdita di se stessi? È questo che devono scontare i figli di quegli operai, oggi indifferenti al sindacato, incapaci di andare in piazza quando muore un loro compagno, pronti a manifestare quando glielo dice il capetto dell’Ilva? Chissà . Di certo la fabbrica dà lavoro e vita, ma ha inquinato nei decenni polmoni e coscienze.
Ippazio Stefà no, sindaco vendoliano, è finito pure lui nel calderone dell’inchiesta sul «sistema Ilva», la sconcertante rete di protezione che, secondo la Procura, avrebbe garantito all’azienda libertà dai vincoli e grandi profitti. S’infervora: «Sono indagato per la denuncia di un consigliere d’opposizione, una cosa che non sta in piedi. Ma l’Ilva mi ha sempre visto come il nemico numero uno… e pagava i giornalisti per attaccarmi». Affermazione grave, è sicuro? «Vedrà quando uscirà tutto quanto, verranno a chiedermi scusa».
Piove ancora su Taranto alle otto d’una sera che non porta quiete. Piove sull’orgoglio operaio ormai finito a mollo, sulla scelta impossibile tra salute e lavoro. Giorgio Assennato, direttore dell’Arpa, ha una bella voce, ed è il cavaliere bianco di questa storia. Si è messo di traverso in tutti i modi quando l’azienda cercava di addomesticare i controlli: «Se il governo fa il decreto, i tarantini avranno la sindrome di Saigon, si sentiranno accerchiati». Ma forse non c’è decreto che possa resuscitare questo immane animale ferito, arenato sulla spiaggia di Taranto. «Noi non ce ne andiamo», insiste ancora Antonio. Poi il vento gli taglia la voce in gola.
Goffredo Buccini
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