Obama «Il meglio per l’America deve ancora arrivare»

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CHICAGO — L’annuncio della vittoria è arrivato quasi improvviso. Sperata, intuita nella calma nervosa con cui gli uomini del presidente ogni tanto fendevano la folla, distribuendo sorrisi e frasi di circostanza. Ma non prevista in tempi così ravvicinati.
È stato come se il cielo si fosse aperto sopra lo spazio buio e cavernoso del McCormick Center, quando, poco dopo le 23 locali, in un perfido contrappasso Fox News (Fox News, la tana del lupo, il covo del conservatori!) si è inflitta il brivido trasgressivo di dare per prima la proiezione «Obama eletto», con tanto di psicodramma intrafamiliare che ha visto Karl Rove, il grande burattinaio repubblicano, dare in smanie contestando la fretta e negando l’evidenza delle cifre.
Doveva essere una lunga notte, quella dell’Ohio. Dove schiere di legali di entrambi i partiti erano pronte a scendere in campo, per contestare nelle corti ogni scheda, identificazione, voto anticipato. E la prima parte della serata sembrava confermare questo scenario. Soprattutto l’iniziale testa a testa in Virginia e Florida, che segnalava Romney competitivo e ancora pienamente in partita. Poi, il progressivo smottamento verso Obama di molti Stati in bilico: Pennsylvania, Wisconsin, Minnesota, Michigan, New Hampshire. A ogni proiezione, il sentiero repubblicano verso il traguardo dei 270 voti elettorali si faceva più stretto, diventava il ciglio di un burrone quando anche Nevada e l’Iowa si tingevano di blu democratico. «Ecco, vedete — ci ha detto a quel punto il sindaco di Chicago, Rahm Emanuel, col ghigno di chi la sa lunga — tutti parlate della coalizione etnica del presidente, ma l’Iowa è un posto bianco, anagraficamente vecchio, eppure è andato a Obama». Facile premonizione.
È stato allora che l’Ohio, the most central location of the nation, specchio fedele del mosaico sociale, economico e generazionale degli Stati Uniti, ha iscritto Barack Obama nell’esclusivo club dei presidenti rieletti, facendone insieme a Bill Clinton il secondo democratico dai tempi di Truman a vincere un nuovo mandato.
La tensione appena dissimulata e la coazione di un luogo senza qualità , che impallidiva di fronte agli struggenti ricordi di Grant Park, quattro anni prima, si è sciolta come d’incanto. Il popolo dei democratici di Chicago ha cominciato a cantare, saltare, abbracciarsi, ballare al ritmo di «Twist and Shout», come liberato da un’angoscia malamente celata, la paura che il suo presidente potesse non farcela. Il grido «four more years» è risuonato tra le migliaia di persone presenti. Come nel 2008, Tyron Turner era venuto dalla California per partecipare alla festa di Obama. Il commerciante di Los Angeles non se n’è pentito: «Sono felice. Sono sul tetto del mondo. Guardi quanti colori diversi ci sono in questa stanza. Siamo tutti insieme, siamo americani. Questa è l’America. Andremo avanti ancora con Obama».
Ma quando tutto era ormai fatto, è cominciata la parte più strana della serata. Man mano che anche gli altri network proiettavano Barack Obama vincitore, si faceva più assordante il silenzio proveniente da Boston, dal quartier generale del governatore Romney. Anche la Virginia, lo Stato di Jefferson, la pietra fondante dell’Unione, andava nella colonna blu: quattro anni fa Obama l’aveva riconquistata ai democratici per la prima volta dal 1964. Ora rifaceva l’impresa. Ma la tradizionale chiamata dello sconfitto non arrivava.
Obama era arrivato poco prima dell’annuncio dell’Ohio al McCormick. Una volta assicurata la vittoria, si era messo al telefono per i ringraziamenti. Primo fra tutti quello a Bill Clinton, «il maestro» come lo aveva pubblicamente battezzato qualche giorno prima, l’uomo che si è messo sulle spalle lui e l’intera campagna, salvandoli nel momento più difficile, quando l’esercito democratico era apparso smarrito e il presidente demotivato. E peccato che nel formidabile discorso finale di Obama, né il vecchio Bubba, né la moglie Hillary Clinton, che sicuramente lascerà  il posto di Segretario di Stato, abbiano avuto l’onore di una citazione.
È passata un’ora e mezza prima della telefonata di Romney, mentre la gente aspettava tra entusiasmo e perplessità  che il presidente pronunciasse il discorso della vittoria. Probabilmente ogni indugio è stato rotto quando i suoi strateghi, pronti a partire verso gli Stati dove sarebbe stato eventualmente possibile contestare i risultati, si sono dovuti convincere che tutto era perduto, che sette anni di corsa verso la Casa Bianca finivano lì, a Boston.
E come sempre avviene in America, la concessione è stata fatta con grazia e generosità . «Auguro al presidente, ala first lady e alle loro figlie ogni bene. Questo è tempo di grandi sfide per l’America e prego perché il presidente abbia successo nel guidare la nostra nazione», ha detto Romney, ascoltato in video dalla folla del McCormick.
Poi, è stata l’apoteosi. Barack Obama è apparso sul palco con Michelle, Malia e Sasha. Quattro anni sono tanti e le due ragazze sono apparse incredibilmente cresciute: elegante in gonna di velluto di seta blu notte e semplice maglietta nera, Malia è ormai alta quanto la madre. Sasha non è più una bambina e veste anche lei con gusto.
È stato il più bel discorso di Obama da molto tempo. In tanti si sono chiesti perché non abbia avuto l’ispirazione e le motivazioni per una retorica così forte e trascinante alla Convention di Charlotte. Con quell’attacco che ha ricordato i suoi momenti migliori: «Questa notte, più di 200 anni da quando una ex colonia conquistò il diritto di determinare il suo destino, il compito di perfezionare la nostra Unione va avanti grazie a voi. Va avanti perché voi avete riaffermato lo spirito che ha trionfato sulla guerra e sulla depressione, che ha sollevato il nostro Paese dalle profondità  della disperazione alle vette della speranza, la convinzione che mentre ognuno di noi persegue i suoi sogni individuali, noi siamo una famiglia americana, ci alziamo e cadiamo insieme, una nazione e un popolo».
Ricco dei temi e dei riferimenti, da Abraham Lincoln, a Franklin Roosevelt, a John Kennedy, che hanno sempre alimentato la sua oratoria, il discorso di Obama segnala la consapevolezza di un presidente che si è assicurato il suo posto nella Storia, ma ora ha davanti un secondo e più difficile mandato. Privo dell’immenso credito di quattro anni fa; eletto da una coalizione inedita e moderna, fatta soprattutto di ispanici, afro-americani, giovani e donne, ma in parte disertato dal voto bianco, Obama deve ora raccogliere i cocci di una nazione divisa e lacerata da profonde contrapposizioni ideologiche. Non a caso, ha riproposto la formula che lo ha reso celebre e che poi ha un po’ smarrito, non sempre per colpa sua, in corso d’opera: «Credo che possiamo afferrare insieme il futuro perché non siamo così divisi come la nostra politica suggerisce. Siamo più grandi della somma delle nostre ambizioni individuali e rimaniamo più di un insieme di Stati rossi e Stati blu. Siamo e saremo sempre gli Stati Uniti d’America».
Paolo Valentino


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