by Sergio Segio | 26 Novembre 2012 21:03
È stata la prima visita di un presidente americano in carica nel Paese asiatico e segna una tappa fondamentale nell’incoraggiamento della comunità internazionale al processo di riforme avviato dal regime birmano, visto che alla vigilia dell’incontro Washington ha revocato l’embargo sulla maggior parte delle importazioni da Yangon e ha chiesto un sempre maggiore rispetto per i diritti umani oltre alla sospensione della cooperazione militare con la Corea del Nord.
Il viaggio del neo eletto Obama è stato però criticato da alcuni attivisti dei diritti umani[1] perché giudicato prematuro. Nonostante alcune aperture alle riforme democratiche[2], infatti, in Myanmar restano ancora in carcere decine di prigionieri politici e continuano le persecuzioni verso le minoranze, due questioni fondamentali che non hanno dimenticato i premi Nobel per la pace[3] (San Suu Kyi nel 1991 e Obama nel 2009) che avevano già avuto un breve incontro lo scorso settembre alla Casa Bianca quando Obama aveva pubblicamente riconosciuto il “ruolo chiave” di San Suu Kyi per il “futuro del suo Paese”. San Suu Kyi che ora siede in Parlamento ha sottolineato di essere “felice di ricevere il presidente Obama nel mio Paese e nella mia casa”, ma ha rivolto un invito alla cautela e ha chiesto di diffidare del “miraggio del successo” delle riforme birmane. “Se lo scopo di questa visita è quella di sostenere il cammino del Myanmar verso la democrazia ricordiamoci che il momento più difficile in una fase transizione è quando il successo è in vista. Quindi dobbiamo stare molto attenti a non essere ingannati dal miraggio del successo”, ha spiegato San Suu Kyi in una breve dichiarazione alla stampa[4].
Le speranze sono tante, ma i dubbi sul futuro del processo democratico attraversano ancora la società civile birmana e anche se Soe Tun[5], responsabile dell’organizzazione Generazione 88[6], che offre assistenza ai prigionieri politici della Birmania dalla Thailandia ha fatto sapere che “52 detenuti politici sono già stati liberati” (tra questi, alcuni nomi noti, come quello di Myint Aye, leader della Rete di difesa e promozione dei diritti umani), l’Associazione per i Popoli Minacciati[7] (Apm) ha accusato il governo birmano di voler ingannare l’opinione pubblica mondiale annunciando solo un’amnistia di facciata di 452 prigionieri in contemporanea alla visita di Obama. L’organizzazione per i diritti umani sperava che tra questi vi fossero almeno 178 prigionieri politici, ma ha dovuto constatare che l’amnistia è al momento solo uno specchio per le allodole e che tra i gli amnistiati soltanto pochi saranno i prigionieri politici. 

Per Apm “questo dimostra come il governo birmano sia in realtà solo interessato ad un’operazione di pulizia d’immagine a livello mondiale, e abbia invece molto poco interesse per una vera democratizzazione e una reale politica di pace nel Paese. Se il Governo birmano volesse segnalare un vero cambiamento dovrebbe come prima cosa liberare immediatamente anche gli ultimi prigionieri politici incarcerati” ha precisato l’ong[8].
Ma a far dubitare della buona fede di Thein Sein c’è anche la guerra latente contro alcune minoranze etniche del paese. “Nello stato federale di Kachin la guerra continua esattamente con gli stessi metodi usati negli ultimi 20 anni dalla giunta militare – ha spiegato Apm[9] – La fame e lo stupro vengono usati come armi da guerra, i civili vengono messi in fuga o uccisi. Nello stato di Arakhan le forze di sicurezza sobillano le aggressioni alla minoranza musulmana dei Rohingya[10] a cui viene tuttora negato il riconoscimento della cittadinanza birmana”.

 Per questo l’Apm ha approfittato dell’attenzione mediatica che ha investito il Paese con la visita di Obama per auspicare che la politica birmana di democratizzazione divenga finalmente realtà anche per tutte le minoranze del paese. “Fintanto che le autorità continuano a detenere prigionieri politici e il Governo non si impegnerà seriamente in una politica di pace con le diverse nazionalità presenti nel paese non deve essere ridotta la pressione internazionale sulla Birmania” ha concluso l’Apm[11] che si è appellata al presidente statunitense affinché durante la sua visita chieda il riconoscimento e il conferimento della cittadinanza birmana per i Rohingya perseguitati. Un diritto negato alla minoranza di fede musulmana nonostante viva nella regione da secoli.
Il suggerimento non è sfuggito ad Obama nel corso del discorso tenuto il 19 novembre, dopo l’incontro con San Suu Kyi, all’università di Rangoon, la roccaforte della lotta per la democrazia[12] che la giunta militare aveva chiuso dopo le violente manifestazioni del 1988. 
Il Presidente ha rivolto un appello solenne affinché si fermino al più presto le violenze 
inter-etniche nell’ovest della Birmania: “Per troppo tempo, il 
popolo di questo Paese, ha dovuto far 
fronte a una povertà spaventosa e alla persecuzione. Ma non ci
 sono più scuse per la violenza contro degli innocenti”, ha dichiarato Obama.[13] A più riprese, dall’8 giugno 2012, le violenze tra buddisti dell’etnia rakhine e
 i musulmani rohingyas hanno causato la morte di 180 persone e oltre
 110.000 profughi.

 “I Rohingya hanno la stessa dignità che avete voi e che ho io”,
 ha proseguito Obama[14] e “La riconciliazione nazionale richiederà del 
tempo, ma per la nostra umanità e per l’avvenire di questo paese è
 tempo di cessare le provocazioni e la violenza”, ha concluso Obama[15] che ha in ogni caso lodato il Governo per aver preso un nuovo impegno per risolvere 
questa situazione.
Un auspicio atteso, quello della risoluzione del conflitto etnico religioso, che ha ormai scavalcato i confini birmani coinvolgendo i molti paesi musulmani che nelle ultime settimane hanno inviato aiuti umanitari ai profughi rohingya. Anche tra i paesi dell’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico[16] (Asean) cresce la critica nei confronti della politica birmana e i paesi confinanti con la Birmania temono un ulteriore esodo di rohingya, poiché ormai tanti membri di questa minoranza non vedono più né sicurezza né un futuro nella loro patria.
Il Paese è adesso atteso ad un ulteriore e decisiva svolta democratica e per il momento incassa la fiducia di Obama: “voi che siete stati un Paese così isolato potete dimostrare che riforme democratiche e sviluppo economico possono andare di pari passo”, ha assicurato il presidente americano[17] ribadendo che gli Stati Uniti “vi accompagneranno” in questo cammino verso un futuro di diritti senza se e senza ma, perché “Anche un singolo prigioniero politico sarebbe di troppo”.
Alessandro Graziadei[18]
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