L’Ohio scalda il motore
Marchionne diventa a sua insaputa un’arma di distruzione della massa di bugie del candidato repubblicano Mitt Romney, perché Chysler e Gm non sono state salvate dai soldi dei contribuenti americani per andarsene a costruire altrove: «Insinuare qualcosa di diverso è sbagliato» scrive Marchionne, «Romney vive in un universo parallelo», dice un portavoce Gm. Che alleati per il presidente, non è mai successo nella storia che le Big di Detroit si ritrovassero a fianco di un candidato democratico.
Obama è in vantaggio nei sondaggi nell’Ohio, stato industriale e altro stato dell’auto insieme al vicino Michigan, senza il quale nessun candidato repubblicano è riuscito a sedersi alla Casa Bianca e solo John Kennedy tra i democratici dal 1960 ne ha potuto fare a meno staccando lo stesso il biglietto per Washington. «Tutto passa per l’Ohio, perché no il presidente?», dice Obama alla gente di Hilliard, chiudendo qui quel cerchio magico dell’automobile che forse rappresenta l’unica vera promessa mantenuta dei suoi primi quattro anni di presidenza. Salvando l’industria delle quattro ruote di Detroit nel 2009 con 60 miliardi di dollari in aggiunta ai 25 già stanziati dal predecessore George Bush, Obama ha salvato probabilmente se stesso, certamente milioni di posti di lavoro. Facendone un punto di non ritorno della campagna elettorale, su cui Romney è andato a sbattere rivendicando quanto scriveva quattro anni fa sul New York Times, «lasciamo andare Detroit in bancarotta».
È un fatto che nella corsa alla Casa Bianca non si sia sentito parlare di rust belt, di quegli stati della «cintura delle ruggine» spazzati via dalla crisi industriale degli anni ’80 con l’automobile al volante, dall’Indiana al Michigan all’Illinois all’Ohio. Non che l’America di Obama stia in salute; la fiducia dei consumatori è ai massimi degli ultimi cinque anni e l’occupazione migliora in ottobre, ma il bicchiere ancora vuoto per due terzi spiega bene il corpo a corpo con Romney, in altra situazione un candidato da guardare lontano negli specchietti retrovisori.
Però il mercato dell’auto interno è ripartito e questo gioca a favore del presidente. Nell’Ohio, 850.000 posti di lavoro sono legati all’automobile, i giapponesi della Honda festeggiano proprio in questi giorni la loro prima macchina costruita a Marysville trent’anni fa, assumendo altre 220 persone nella fabbrica di motori di Anna. La Chrysler sta qui a Toledo dal 1903 e qui nascono il marchio Jeep e la mitica Willys. Martedì scorso, alle 11.50 ora locale, mentre Romney fa mandare in onda su radio e tv una pubblicità in cui un narratore sostiene che «Obama ha venduto la Chrysler agli italiani che stanno andando a costruire Jeep in Cina», Marchionne invia una lunga mail ai suoi dipendenti per negare tutto e rivendicare il successo dell’acquisizione grazie all’aiuto (anticipatamente ripagato) dell’amministrazione Obama. In tre anni, scrive il manager, la Jeep ha triplicato la produzione in Nordamerica, il gruppo ha assunto 11.000 lavoratori in più, altri 1.100 verranno presi nel 2013 in Jeep per una terza linea a Toledo. Un successo che separa dagli occhi le miserie e le perdite della controllante Fiat.
Non che Obama abbia salvato Gm e Chrysler senza danni. In cambio dei finanziamenti pubblici agevolati e della bancarotta controllata, 2.000 concessionari e 14 fabbriche dei due marchi chiusero i battenti. E quei lavoratori che non persero il posto di lavoro subirono il ricatto di condizioni pesantissime pur di restare in fabbrica, negandosi in Chrysler sotto il tacco di Marchionne il diritto di sciopero fino al 2015 e accettando riduzioni di salari e benefit. Nel terzo trimestre Chrysler ha fatto utili per 381 milioni di dollari, Gm per 1,5 miliardi e Ford (senza aiuti pubblici, ai tempi) 1,65 miliardi. Shakerando tutto nell’urna, un Ohio per Obama potrebbe essere servito.
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