by Sergio Segio | 17 Novembre 2012 8:29
ROMA — Donne licenziate, a un passo dalla pensione. Poi, all’improvviso, quel traguardo si sposta. E in mezzo si apre il baratro di lunghi anni senza entrate, l’impossibilità di trovare lavoro a sessant’anni, il figlio disoccupato da sostenere, l’anziano da accudire. La vicenda “esodati”, tutt’altro che risolta dal fondo creato dal ddl Stabilità , nasconde un caso nel caso. Sono i licenziati, e soprattutto, le licenziate. Fuori da aziende che ristrutturano o falliscono o chiudono. Ma anche fuori dalla coperta della mobilità . E fuori dagli accordi “incentivati” all’esodo, con la transizione verso la pensione accompagnata dagli scivoli. Tutte prerogative proprie delle aziende medio-grandi, ora pure rafforzate da due decreti e dal fondo che di questi “esodati” ne salvano 130.130. Ma gli altri? E le altre?
Le donne, innanzitutto. Le più penalizzate, perché per loro l’età della pensione, con la riforma Fornero-Monti, si è allungata, senza transizioni né gradualità , anche di 7-8 anni in un colpo solo. E chi è stata licenziata, senza altri aiuti che qualche mese con il sussidio di disoccupazione, ora con dignità manda curriculum in giro. I risparmi sono finiti, la liquidazione anche. Ma nessuno in Italia è disposto ad assumere chi di anni ne ha 59. Anche peggio per chi è sopra i 60. Troppo “vecchie” per lavorare. Troppo “giovani” per l’assegno. Non conta l’esperienza, le competenze, le ambizioni di carriera ormai sopite e dunque la minore conflittualità . «Qui purtroppo non siamo in Germania», racconta Marta Pirozzi, 59 anni, licenziata dalle Poste dopo aver vinto un ricorso per demansionamento e mobbing. «Mi dissero che non esistevano posti adeguati e mi accompagnarono alla porta». Da allora, l’inferno. «Il licenziamento ha interrotto un progetto di vita e impedito di riprenderlo altrove, lasciandomi questa sensazione di iniquità e violenza». E altri otto anni da riempire. Marta era in piazza a Roma, mercoledì scorso, con le donne che come lei condividono questo speciale
senso di “sospensione”. Sono le Esmol: esodate, mobilitate, licenziate. «Abbiamo manifestato accanto agli studenti per il diritto al lavoro, non per ricevere sussidi», racconta Marta. Il dramma è proprio questo: alla disoccupazione dei giovani ora si somma quella delle madri. Una bomba sociale destinata ad esplodere nel 2013 e negli anni a venire.
«I casi come quelli di Marta sono moltissimi e crescono in modo esponenziale», conferma Morena Piccinini, presidente dell’Inca, il patronato della Cgil. Nessuna contabilità dei fin qui “salvaguardati” include questi lavoratori e lavoratrici che sono stati licenziati senza rete. Casi frequenti, specie nelle piccole e piccolissime aziende italiane, prive degli ammortizzatori delle “grandi” e fuori dal radar di politici, tecnici, media. Per loro, neanche l’ombra di una fiscalità di vantaggio per favorirne il reingresso, anche part time, nel mondo del lavoro. «Le donne sono molto penalizzate, senza dubbio», spiega Piccinini. «Alle licenziate si sommano anche le “quindicenni”, ovvero le lavoratrici che hanno versato 15 anni di contributi, tanto quanto bastava per la pensione in base alla legge Amato del ’92. Legge che non è stata mai cancellata e di cui hanno usufruito tante donne: mogli, madri e figlie. Ma che ora un’interpretazione di Inps e ministero del Lavoro cambia alla radice, portando gli anni a 20. Così, non solo la riforma spinge sempre più in là l’età per l’assegno previdenziale. Ma per averlo quelle donne che hanno dovuto lasciare il posto per accudire la famiglia devono versare altri 5 anni. E chi non ce la fa?».
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