L’election day unisce i partiti in crisi

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ROMA — L’election day proposto da Casini fa proseliti nel Palazzo, se è vero che Maroni e Alfano si sono detti subito d’accordo con il leader centrista. A prima vista appare un’operazione di buon senso, una conversione alla stagione del rigore e della sobrietà , il sussulto di quanti vogliono mostrarsi accorti e parsimoniosi. In realtà  la richiesta di accorpare in febbraio le elezioni nazionali alle Regionali cela una manovra politica: perché sarà  pure sincero l’intendimento dei partiti di risparmiare soldi pubblici, ma il vero scopo è quello di risparmiarsi delle figuracce.
Se il voto nel Lazio e in Lombardia dovesse infatti precedere di qualche mese la consultazione nazionale, molti (se non tutti) correrebbero il rischio di trovarsi dinnanzi a una riedizione del voto siciliano, che ha segnato la vittoria dell’astensionismo, l’avanzata dei grillini e il crollo di consensi per le forze della Seconda Repubblica. E un simile responso, magari amplificato, alla vigilia della sfida per il rinnovo del Parlamento, potrebbe rivelarsi esiziale per il sistema. Ecco perché è iniziato il pressing per unire nella stessa giornata i test regionali con quello nazionale: per nascondere la perdita di consensi e per superare le contraddizioni politiche di partiti in asfissia.
È stato Berlusconi nello scorso fine settimana a innescare non si sa quanto volontariamente il meccanismo, con la conferenza stampa indetta dopo la sentenza del processo Mediaset. E poco importa se la mossa sia stata dettata da una reazione alla condanna, se il Cavaliere se ne sia poi pentito: fatto sta che in un solo colpo ha contribuito alla sconfitta del centrodestra in Sicilia e ha perso anche il vantaggio tattico sui centristi, conquistato appena tre giorni prima. Con l’annuncio del «passo indietro» e delle «primarie» nel Pdl, l’ex premier aveva infatti messo in difficoltà  Casini sulla linea del «montismo», aprendo uno scenario nuovo nel campo moderato. Ma l’improvviso cambio di fronte e il segnale lanciato al Pd di elezioni a febbraio, hanno garantito al leader dell’Udc di svincolarsi dalla morsa e di rilanciare l’intesa con Bersani che sembrava ormai superata. È stata la lettura dei dati siciliani che ha indotto Casini al passo successivo: dietro la vittoria di Crocetta si sono manifestate la cronica incapacità  del partito a intercettare l’ex voto berlusconiano ma anche le difficoltà  a racimolare i propri consensi. In più, l’altissimo tasso di astensionismo e l’avanzata del grillismo, proiettati su base nazionale, sono parsi un’autentica minaccia.
Di qui la mossa dell’arrocco, cioè il rilancio dell’asse con il segretario del Pd. Pare che nemmeno la presenza di Vendola, in prospettiva, possa minacciare il patto, se è vero che nell’Udc derubricano già  ora il ruolo del leader di Sel: «Nichi sarà  il Pdup di Bersani», sussurra un dirigente centrista, lasciando intuire che dopo le primarie il governatore pugliese accetterà  di entrare in un listone unico con i Democratici. Ma c’era (e c’è ancora) la questione delle elezioni regionali, un nodo che Casini vuol tagliare con l’election day, perché l’accorpamento gli consentirebbe di aggirare molti problemi.
Quale sarà  infatti il destino dell’accordo con Fini e come potranno andare avanti in questo caso le trattative con il movimento «Verso la Terza Repubblica»? Il segretario della Cisl Bonanni — che è tra i firmatari del manifesto — scarta l’ipotesi che Casini possa allearsi con il Pd, se Bersani non rompesse prima con Vendola: «No, non può essere così. Sarebbe un’operazione dettata dallo spirito di autoconservazione. L’Udc perderebbe tutti i voti». Già  se li tenesse tutti, non è detto che l’alleanza vincerebbe al Senato.
Si vedrà , intanto l’election day servirebbe a Casini per risolvere il nodo delle intese sul territorio. Problema di non poco conto, perché l’Udc deve decidere cosa fare in Lombardia e soprattutto nel Lazio, dove il Pd ha già  candidato Zingaretti che a sua volta si è alleato con Sel e Idv. Ma i centristi — senza un accordo già  stretto con i democratici a livello nazionale — si troverebbero davanti a un bivio, con il pericolo di una scissione o di una rischiosa corsa solitaria. Ecco perché serve l’accorpamento, per non mostrare le proprie crepe prima delle elezioni politiche.
Ecco perché servirebbe anche al Pdl. Ieri Alfano è uscito allo scoperto, dicendosi favorevole alla soluzione. È evidente l’isolamento in cui versa il suo partito, in caduta nei consensi. Ed è chiaro che anticipare il ricorso alle urne garantirebbe di arrestare l’emorragia. Peccato che il segretario del Pdl stia puntando sulle primarie per rilanciarsi, e l’election day metterebbe a repentaglio l’appuntamento del 16 dicembre. Per quella data, se si andasse al voto anticipato, i partiti dovrebbero aver già  stabilito le alleanze, dovrebbero essere pronti con le liste e impegnati in campagna elettorale. Che ne sarebbe allora dei gazebo e chi sarebbe il candidato premier?
Il punto è che — dentro e fuori il Palazzo — partiti e movimenti, in preda a una crisi di nervi dopo il voto siciliano, si mostrano privi di strategia e si muovono nel segno del più sfrenato tatticismo. Così nel Pdl, a corto di voti e di soldi, si aspetta di sapere quale sarà  la prossima mossa di Berlusconi. Forse è vero ciò che racconta l’ex ministro Rotondi, e cioè che tra il Cavaliere e il segretario «l’accordo c’è», che sono «le opposte tifoserie per un proprio tornaconto a dar l’idea dello scontro», che «la storia del partito berlusconiano è una bufala», che l’ex premier «sta sì lavorando al movimento l’Italia che lavora, ma solo per mettere in lista nel Pdl un paio di personalità : dallo scienziato Zichichi a un misterioso rappresentante di sinistra, di cui non ci ha fatto il nome, ma che — Silvio dice — si schiererà  con noi».
Sarà , ma il Pdl sembra una tonnara, diviso sulla legge elettorale perché diviso sulla strategia delle alleanze. Maroni, favorevole all’election day per interessi sulla Lombardia, sostiene che in Parlamento «il sistema di voto non verrà  modificato»: «Si andrà  alle urne con il Porcellum», scommette il leader leghista. Se così fosse, senza più sponda con i centristi, Alfano dovrebbe ripiegare su un’intesa con il Carroccio, che metterebbe a rischio la tenuta di quel che resta del suo partito. Maroni però cade in contraddizione, perché se davvero restasse il Porcellum, di sicuro Napolitano non anticiperebbe la fine della legislatura, e salterebbe l’accorpamento. C’è tanta confusione nel Palazzo. E fuori c’è Grillo che aspetta.
Francesco Verderami


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