Le sbarre che escludono il diritto

by Sergio Segio | 6 Novembre 2012 7:59

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In uno strano periodo della sua esistenza Egon Schiele trascorse, con una brutta accusa mossa da pudibondi delatori, ventiquattro giorni in carcere: era il mese di aprile del 1912. Il pittore definì le condizioni complessive della detenzione come una situazione in cui sarebbe impazzito se avesse «dovuto continuare ancora a lungo in quello stato di continua ebetudine»: il riferimento era non tanto e non solo alle condizioni materiali, all’affollamento, alla non intimità , quanto all’ambiente, all’atmosfera complessiva, all’incidenza che essa inevitabilmente aveva – ed ha – sulla corporeità  di chi in carcere è ristretto. Per lui la via di fuga furono i pennelli: «con dita tremanti inumidite dalla mia saliva amara, mi sono messo a dipingere per non impazzire del tutto; servendomi delle macchie nell’intonaco ho creato paesaggi e teste sulle pareti della cella, poi osservavo il loro lento asciugarsi fino a impallidire e sparire nella profondità  del muro, come fatti sparire dall’invisibile potenza di una mano incantata».
Oggi quei graffiti e quegli schizzi sono all’Albertina di Vienna. Ritraggono ambienti immediatamente riconoscibili a chi frequenta il carcere, tanto immutati sono nei cento anni che ci separano da essi lo schema relazionale e l’impersonalità  trasandata che essi trasmettono: li ritroviamo nelle pagine di descrizione di attuali analisti dei sistemi penitenziari, così come negli scritti di detenuti del nuovo secolo. Ciò che è mutato è che quanto un tempo era disvelato dalle descrizioni di rari osservatori, è oggi invece esibito, reso conoscibile; senza imbarazzo.
Così, la lettura di saggi e scritti che da angolazioni diverse esaminano il punto di arrivo dei sistemi penali non serve più a sapere ciò che in fondo già  si sa. Serve piuttosto a recuperare la riflessione sulla legittimità , il significato e il limite del potere punitivo che la società  e, per essa, lo Stato hanno nei confronti di coloro che hanno aggredito beni a cui essa attribuisce valore e che ritiene doveroso tutelare. Questa è la riflessione dei cicli di dibattiti sui libri sul carcere e sulla pena che l’università  di Ferrara propone annualmente, per iniziativa di Andrea Pugiotto che, da costituzionalista, riporta al nucleo della finalità  della pena detentiva le analisi che nascono da suoi aspetti e sue modalità . Il centro resta comunque la materialità  della pena, la sua ineludibile incidenza sulle vite, sui corpi, sulle quotidianità .
Un recente volume, che Pugiotto ha curato insieme a Franco Corleone, riprende il ciclo d’incontri del 2011 (Il delitto della pena, a cura di F. Corleone e A. Pugiotto, Ediesse) e si muove attraverso quattro aspetti che evidenziano criticità  diverse e tutte estreme, perché ruotano, tutte, attorno al tema della morte: la morte come pena; la morte non materiale ma civile della definitiva esclusione dal contesto sociale; la morte che interviene come fattore oscuro all’interno di un universo che dovrebbe essere di attenta custodia e, quindi, di responsabilità ; la morte della pietas di chi, in una impropria concezione di rilevanza della vittima nella scena penale, tende a chiamare la vittima stessa a concorrere a decisioni pubbliche, quale è la punizione del colpevole.
Sono nodi non semplici da dirimere soprattutto nel contesto attuale che sembra spesso centrare il discorso non sulla funzione della pena come elemento per riannodare i fili spezzati, quanto sulla meritevolezza dei castighi, in un improprio e impossibile bilanciamento tra male sofferto e male da infliggere. A questa deriva, che non attiene soltanto all’ambito giuridico, ma a quello più generale della cultura e dei rapporti tra individui e a quello dell’abbandonato ruolo propositivo che la politica dovrebbe esprimere, sono dedicate le pagine più originali del libro; quelle che lo pongono al di là  delle analisi più tradizionali sul carcere. Lo pongono, infatti, come un testo che ci ricorda che il diritto penale nella modernità  non nasce in continuità  con la pratica della vendetta, solo rendendola meno direttamente cruenta e soprattutto affidandola alla neutralità  dello Stato; al contrario, nasce in contrapposizione a essa e alla logica che la sosteneva. Questa affermazione – banale nelle dissertazioni dotte, però negata nella pratica della quotidianità  mediatica e spesso anche in qualche deriva pseudo-giuridica – ha valore determinante per la riflessione sul sistema delle punizioni e sul carcere odierno.
Proprio per questo le pagine del libro sono precedute da un’approfondita introduzione, dall’emblematico titolo Quando il delitto è la pena, centrata sul dove siamo giunti e che ci richiama all’estrema vicinanza dei temi affrontati; e si concludono con le parole del Presidente Napolitano in un convegno in Senato dello scorso anno. Parole che certificano ciò che la premessa denuncia: la prepotente urgenza di riportare il carcere alle sue connotazioni costituzionali. Un dovere verso chi vi è detenuto, verso chi vi opera, ma anche verso noi stessi, a esso esterni, ma che rischiamo di essere inconsapevolmente parte di una cultura di morte.

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