Le libere donne di Teheran

by Sergio Segio | 4 Novembre 2012 8:46

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Sepideh Talebi, nata il 5.8.1368 (27.10.1989 secondo il nostro calendario). Arrestata perché indossava un rupush troppo corto (il rupushè un cappottino che un tempo era lungo fino ai piedi e si è andato via via riducendo in lunghezza e ampiezza). Mana Davodi, nata il 5.4.1980. Arrestata perché portava i sandali senza calzini lasciando vedere le unghie laccate di rosso. Romana Reyahi, nata il 16.1.1986. Arrestata perché teneva il rupush sbottonato. E poi Sara Kermani (3.7.1981), Tina Azimi (6.11.1979), Tahereh Reyahi (25.3.1983). Tutte arrestate per quello che genericamente viene chiamato in Iran bad hejab (la scarsa osservanza dei codici di vestiario imposti dalla rivoluzione islamica), e trasferite in un posto di polizia — da cui hanno potuto essere rilasciate solo dopo aver giurato obbedienza ai codici islamici, essersi struccate e rivestite con vestiti castigati che gli hanno mandato da casa. Alcune multate, altre condannate a pene diverse, tra le quali non sono infrequenti le frustate. Eppure non hanno esitato quando la fotografa Maryam Rahmanian ha chiesto loro di fotografarle per una mostra, ricostruendo in studio il loro bad hejab— il trucco vistoso, i capelli scarmigliati, e mettendo loro in mano delle targhe con nome e cognome, come i cartelli segnaletici con cui la polizia ricerca i criminali. Una provocazione, che può anche risultare pericolosa per chi vi partecipa (anche se la mostra gira solo all’estero), e che testimonia che le donne iraniane non si arrendono. Nel ’79 furono molte le donne che contribuirono all’ascesa al potere dell’ayatollah Khomeini senza immaginare che subito dopo sarebbero state abolite leggi che le mettevano legalmente sullo stesso piano degli uomini e riformulato a loro svantaggio il diritto di famiglia. Coprire i capelli divenne un obbligo, il diritto al divorzio e alla patria potestà  sui figli fu limitato, l’età  minima per sposarsi abbassata, la poligamia ripristinata. Diversamente da altre società  islamiche, come quella saudita, furono però mantenuti i diritti politici, soprattutto quello di voto. L’islamizzazione separò i sessi e sacrificò le donne sul piano dei diritti ma non le escluse dalla società . Le iraniane hanno sempre potuto studiare, andare all’università , avere attività  lavorative. E questa è stata la premessa che ha permesso loro di resistere.
Il velo stesso, paradossalmente, non racconta solo una storia di diritti violati. Per le figlie delle famiglie tradizionaliste che ai tempi dello scià  non venivano mandate a scuola, il velo, e la separazione dei sessi, sono stati un lasciapassare — la condizione che convinse i padri a farle uscire di casa. Oggi il 65 per cento degli studenti universitari sono ragazze, e gli ayatollah guardano con preoccupazione agli effetti collaterali dell’emancipazione. Tanto che in agosto, prima della riapertura degli atenei, diverse università  hanno deciso di rendere accessibile l’immatricolazione solo ai maschi per 77 facoltà , soprattutto scientifiche. Il premio Nobel Shirin Ebadi ha scritto al Segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon perché stigmatizzi il tentativo di rimandare le donne al focolare per stroncare la loro resistenza.
Il velo diventò subito un simbolo per la Repubblica islamica (come oggi il programma nucleare, anche se questo è più pericoloso), proprio perché fu l’oggetto precipuo e costante delle critiche occidentali (che si levavano forti contro l’Iran trascurando invece paesi come l’Arabia Saudita dove i codici di comportamento e di vestiario sono ancora più rigidi). «È un’arma contro il nemico», dicevano gli ayatollah: rispettare i codici di vestiario divenne un gesto patriottico. Anche quando con il presidente riformatore Khatami, portato al potere soprattutto dal voto femminile, le regole cominciarono ad allentarsi e i rupush diventarono più corti e più colorati, l’argomento rimase tabù, sebbene molti degli stessi ayatollah pensino che quelle regole siano arbitrarie, e che in nessuna parte del Corano sia scritto e prescritto come le donne debbano vestirsi; e che comunque il mondo non è più quello di tredici secoli fa e le sure del Corano vanno reinterpretate alla luce del mondo moderno.
Ma le donne hanno resistito — e anche far uscire i capelli dal foulard o laccarsi le unghie è una prova di resistenza. Hanno cercato contro tutti gli ostacoli di raccogliere un milione di firme per un referendum sulla parità . Sono state in prima fila nelle manifestazioni di protesta del 2009. E in questi giorni circola su Facebook una campagna «No al velo obbligatorio», sostenuta, con tanto di nomi e foto, da molte donne che il velo lo portano per scelta e per tradizione ma che difendono la libertà  delle loro figlie, sorelle o amiche che la pensano diversamente di non portarlo. Sempre più spesso gli artisti iraniani fanno di questi temi il leitmotiv dei loro film, dei video, dei libri, delle mostre. Come Maryam Rahmanian. O come Newsha Tavakolian, la cui mostra “Listen”, sei ritratti di famose cantanti iraniane a cui non è permesso di cantare in Iran (i dettami religiosi vietano la voce femminile davanti a un pubblico dove ci siano uomini), è stata l’evento clou del festival Middle East Now.

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