Le famiglie al nord ora sono stabili in Lombardia già 25 cosche leader
MILANO — La politica, e anche pezzi dello Stato, minimizzavano. Ma è stata la magistratura, lavorando sui cardini Milano-Reggio Calabria, ad «entrare» una volta per tutte dentro il fortino della ‘ndrangheta. È questo un punto di «non ritorno». Da ieri diventa davvero difficile far finta che il Nord sia indenne dai clan.
L’operazione che ha portato agli arresti dei «manager calibro 9» è l’ultima in ordine cronologico. I dati oggettivi, raccontati negli ultimi anni, sono di un’evidenza talmente accecante da rendere minimalista il termine «infiltrazioni ». Sembra un’alluvione, una tracimazione. Lo dicono i fatti. Una microcamera ha ripreso alle porte di Milano una riunione di tutti i capi delle «locali», le affiliazioni della casa madre in Lombardia. Uomini panciuti e seri hanno votato e brindato per il loro boss al nord. Un’altra camera nascosta ha ripreso alla Madonna di Polsi, in Aspromonte, quello che viene chiamato «un vecchietto ». Uno che, come già Riina e Provenzano per i clan siciliani, può essere il capo proprio perché ha i capelli bianchi e rappresenta «la storia» dell’organizzazione, ed è a lui che devono far riferimento anche le cosche del nord.
Sempre grazie a telecamere e microspie, abbiamo osservato da vicino un neoeletto politico pdl, Mimmo Zambetti, parlare con i boss e comprare i loro voti, utili per diventare assessore regionale alla Casa dell’ex giunta Formigoni. E la giunta, già vacillante, è crollata. Prima di queste investigazioni, nessuno ha visto, nessuno sapeva? È possibile? «La ‘ndrangheta in Lombardia è una struttura stabilizzata con contatti con il mondo delle imprese e con la politica, ci sono venticinque “locali”», dice il procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria Michele Prestipino. «Sarà lo Stato a gestire la ditta sequestrata, i 600 dipendenti non possono
rimanere senza lavoro», aggiunge Ilda Boccassini. Sono loro due, con i loro sostituti, ad averci mostrato l’ultimo anello di questa lunga catena. E cioè come una cosca possa conquistare in pochi mesi un’azienda con un portafoglio clienti notevole, da Sky a Vodafone, da Ticket One a Reti televisive italiane, da Wind a Isi service.
Giorno dopo giorno, commercialista dopo notaio, collusione dopo collusione, diventa palese, plastico, tangibile il metodo della ‘ndrangheta di prendersi la Blue Call di Cernusco sul Naviglio. Carabinieri, polizia e finanza, tutti insieme al lavoro senza sovrapposizioni («Se sgarriamo, la Boccassini ci fulmina»), sottolineano come al Nord le cosche mostrano la faccia più pulita, e come al Sud esibiscono la forza bruta. Ma — e questo non è un dettaglio secondario — le persone sono le stesse. Le giornate dei detective vanno a incrociarsi con il ringhiare continuo dei latitanti e di quelli che dicono «sono diventato imprenditore ». Con le minacce fatte di persona e al telefono. Con quell’appiccicoso fare e ottenere favori quotidiano che è una cifra dello «stile mafioso».
Per gli imprenditori, che conservano una sorta di religione del lavoro, i boss sono soltanto «merdoni ». Ma «sicuramente — dicono — io non mi metto a fare discussioni con ‘sta gente, e sai perché? Perché, o con questa azienda o con un’altra, sicuramente per il futuro devo lavorare». I boss, però, seguono un’altra religione: «Basta che quello faccia clic sul computer, digita Bellocco- Rosarno e vedi che cosa esce in quel computer, parlano tre ore di noi». E cioè di una famiglia, si vantano, «capace di prendere cento al giorno», nel senso di cento vite umane, perché «Rosarno è nostro e deve essere per sempre nostro, se no non è di nessuno». Quel potere oscuro da esercitare giù al paese vale anche per le conquiste del Nord. Come la Blue Call, come le tante aziende diventate cosa loro. Come aveva detto il ragioniere di un’altra azienda del Nord conquistata, la Perego strade, questi boss «sono come un virus». E che altro deve servire ancora, si chiedono all’antimafia, per far scattare l’allarme rosso?
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