by Sergio Segio | 6 Novembre 2012 15:09
Un’idea semplice e rivoluzionaria: sostituire le attuali 450 caserme con sole 15 basi, strutture moderne a ridosso dei poligoni per l’addestramento. Il generale Claudio Graziano, comandante in capo dell’Esercito, lo vorrebbe fare il prima possibile: «Perché oggi non riusciamo a fare fronte alle spese per tenerle in funzione e spostare mezzi e personale in giro per l’Italia. I costi di gestione sono insostenibili e non consentono un’ottimizzazione delle risorse. Invece la dismissione delle caserme potrebbe dare risorse pari nel tempo a 4-5 miliardi di euro e creare un’occasione di sviluppo per il Paese». Graziano è uno di quei militari nuovi, formati nelle missioni internazionali e abituati a pensare in inglese: fu lui a guidare il contingente degli alpini che nel 1991 garantì la pacificazione del Mozambico, poi ha comandato la Brigata Multinazionale della Nato a Kabul e nel 2007 l’intera forza Onu in Libano per tre anni. Conosce la prima linea e il suo pensiero è sempre rivolto a garantire l’operatività dei soldati: la notizia della morte del caporale Tiziano Chierotti, ucciso in un agguato in Afghanistan, è arrivata proprio durante questa intervista: «Possiamo risparmiare su tutto, ma non sulla sicurezza del personale».
Oggi l’Esercito è in una fase radicale di trasformazione, dovuta ai tagli e al cambiamento della situazione geostrategica. Alla fine di questa metamorfosi come sarà organizzato?
«Noi abbiamo sviluppato un modello concettuale, che dovremo adattare alle risorse disponibili. La prima vera metamorfosi è stato il passaggio dalla leva ai professionisti, impostato cercando di immaginare il futuro: nelle missioni quel modello ha dimostrato di funzionare bene. Oggi quello che serve è un esercito flessibile, in grado di potersi adattare a tutti gli scenari possibili: peacekeeping o assistenza umanitaria, incluse situazioni di combattimento ad alta intensità come accade in Afghanistan. Abbiamo definito una struttura modulare, che ha come perno le brigate di manovra: in Afghanistan gestiscono fino a 9.000 uomini. Per questo stiamo riducendo il numero dei comandi e dei supporti: cerchiamo di accorpare unità , asciugare la catena di comando ed eliminare tutte le duplicazioni, anche nello stato maggiore, per privilegiare la componente operativa. Quella che stiamo realizzando è una trasformazione a costo zero, senza investimenti: dobbiamo farcela, anche se credo che a pochi Paesi sia riuscita».
E nei numeri cosa significa?
«Oggi sulla carta l’Esercito ha 112 mila uomini e donne. Nel 2016 per effetto della spending review saremo 100 mila; poi entro il 2024 scenderemo a circa 90 mila. E’ un processo di riduzione complesso perché vogliamo salvaguardare le legittime aspettative del personale fulcro della forza armata ma che porterà dei risparmi che si tradurranno in addestramento ed equipaggiamenti cioè in capacità di operare allo stesso livello degli ultimi anni in un quadro finanziario sfavorevole ».
E’ un numero adeguato per gestire le missioni? Attualmente Libano e Afghanistan, con le rotazioni ogni sei mesi, richiedono quasi ventimila uomini l’anno in prima linea.
«Oggi lo ritengo tale. Certo, nei 90 mila è compreso il personale in addestramento e quello destinato a funzioni che in altri Paesi sono svolte dai civili. Quindi le forze operative saranno composte da 65 mila militari per sostenere nove brigate, inclusi supporti e i comandi. Tenuto conto della relativa rigidità del mercato del lavoro e che le strutture militari devono tenere il personale più a lungo rispetto a quanto accade in altre nazioni, questo è il numero limite per assolvere in maniera adeguata i compiti assegnati e per garantire le forze addestrate necessarie per le missioni di oggi e di domani.».
I tagli vanno a colpire l’arruolamento di figure giovani: non rischiamo di avere soldati troppo anziani per andare in missione?
«La risposta breve è: sì corriamo il rischio. La risposta articolata è che dobbiamo trovare il modo di intervenire in termini procedurali e normativi. L’esigenza è quella di avere 40 mila giovani, di ogni categoria, idonei all’impiego e costruire un’offerta che invogli ad arruolarsi. Il successo nelle missioni è avvenuto perché avevamo personale di qualità . Quindi da un lato è necessario assegnare il personale più giovane ai reparti operativi e poi garantire il passaggio graduale a compiti meno gravosi. Dall’altro è necessario introdurre dei processi che rendano possibile il transito del personale meno giovane presso altre amministrazioni dello Stato. In particolare, a mio avviso, potremmo transitare un elevato numero di militari nel personale civile della Difesa questo a similitudine di Paesi quali gli Stati Uniti in cui gran parte dei dipendenti civili del Pentagono provengono dai ranghi militari. Naturalmente queste sono tutte formule che vanno definite nei prossimi anni».
Nell’Esercito del futuro voi prevedete un ruolo crescente delle forze speciali, quelli che una volta venivano chiamati commandos, che dopo l’11 settembre sono diventate protagoniste delle operazioni.
«E’ il nostro obiettivo ma non è facile: formare personale delle forze speciali richiede selezione, tempo e preparazione. Servono due o tre anni minimo per addestrarlo. Contiamo di avere 2.500-3.000 uomini per questi compiti. Le unità principali sono gli incursori del Col Moschin, gli acquisitori obiettivi del 185mo reggimento che si occupa di intelligence sul terreno, i ranger del reggimento alpini paracadutisti, gli elicotteri del Reos e il reggimento Pavia incaricato delle “comunicazioni operative” a contatto con le popolazioni».
Si parla tanto della spesa per i caccia F35 ma oggi il programma più costoso della Difesa è quello chiamato “Forza Nec” (ossia Network enabled capability) che prevede un investimento di 22 miliardi di euro per la trasformazione tecnologica soprattutto dell’Esercito. Come si può spiegare ai cittadini la necessità di un progetto così impegnativo?
«Probabilmente non siamo riusciti noi a spiegare cosa è Forza Nec e si è creata una confusione tra la sperimentazione e il costo complessivo. Infatti, da un lato vi sono i costi di sviluppo dei concetti e di sperimentazione, meno del 5 per cento della cifra da lei citata: questa fase ci consentirà di evitare gli errori del passato quando i sistemi che chiedevamo non erano quelli che poi ci arrivavano. Una volta terminata si procederà all’ammodernamento, nel corso dei prossimi 20 anni, di tutto l’Esercito rendendo quindi le nostre unità capaci di operare alla pari con i principali partner in un ambiente ad elevato contenuto tecnologico. Quindi Forza Nec è l’ammodernamento di tutto l’Esercito e non un singolo programma».
In passato l’Esercito ha acquistato mezzi che si sono dimostrati subito obsoleti. Come le centinaia di autoblindo Puma ritirate dalla prima linea nel giro di un paio di anni…
«Abbiamo dovuto cambiare tante cose. Alla fine della leva avevamo 1.200 carri armati, ora ne sono presenti 200 e solo 120 sono operativi: una riduzione del 90 per cento. In passato i tempi tra la progettazione dei mezzi e l’ingresso in servizio sono stati troppo lunghi. Io ero un ufficiale appena uscito dalla scuola di guerra quando nel 1987 ho cominciato a occuparmi del progetto delle autoblindo Puma e le ho avute in operazione vent’anni dopo. Appena sono arrivate eravamo contenti, ma non hanno retto alla nuova minaccia degli Ied, le trappole esplosive usate in Afghanistan. Va detto però che nessuno dei mezzi con cui siamo entrati in Afghanistan è ancora in servizio operativo. E questo è accaduto per ogni nazione. Adesso stiamo imparando dall’esperienza: bisogna avere un rapporto più diretto con l’industria, seguirla in modo attento, dare idee chiare e tenere conto delle lezioni apprese. Con le ultime acquisizioni stiamo facendo passi veloci, l’importante è riuscire ad aggiornare i nostri sistemi: su tutto possiamo risparmiare, non sulla sicurezza del personale».
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