by Sergio Segio | 2 Novembre 2012 8:50
Solo nelle elezioni regionali del 1980, mentre già emergevano corposi casi di corruzione e di corrosione delle istituzioni, si scese sotto il 90%, con la contemporanea crescita di schede bianche e nulle. Erano passati 32 anni dalle prime elezioni politiche della Repubblica, e dopo altri 32 anni esatti siamo scesi sotto il 50%: il declinare è stato progressivo e relativamente lento fino alle regionali del 2010, che hanno visto la brusca discesa dei votanti al 65% ed il primo affacciarsi del Movimento Cinque Stelle.
In questi pochi dati è sintetizzato il drammatico aggravarsi di una crisi intrisa di disincanto e sfiducia che ha avuto un’incubazione lunghissima: e che esige quindi un’inversione di tendenza altrettanto profonda. Il segnale d’allarme del 1980 trovò immediata conferma nelle elezioni politiche del 1983, precedute da un dibattito che coinvolse anche commentatori pacati e poco inclini all’antipolitica: l’astensione, osservava Enzo Biagi, “è venuta crescendo insieme con la delusione di un’opinione pubblica che ha visto vanificare le speranze di rinnovamento (…). La richiesta di una maggiore pulizia con uno dei pochi strumenti ancora concessi a un italiano è forse un vaneggiamento?” (La mia scheda sarà bianca… era il titolo di quell’articolo). Eravamo, come si è detto, nel 1983, e la Liga veneta portava allora per la prima volta in Parlamento un deputato e un senatore. In quei mesi l’estensione della corruzione appariva ormai evidente, confermata dalle bufere giudiziarie che investivano il Psi, e non solo esso, a Torino e Genova; unita, anche, a quella occupazione partitica dello stato che Enrico Berlinguer aveva denunciato in modo crudo due anni prima. Altro che “modernizzazione” degli anni ottanta: il decennio craxiano avrebbe alimentato in modo decisivo i comportamenti destinati a infangare l’immagine della politica nel vissuto di milioni di italiani; e avrebbe consolidato un ceto di amministratori e politici (e di cittadini beneficiari) sempre più convinti che non esistano confini fra i propri interessi privati e gli interessi pubblici. Al tempo stesso, nel declinare di una forma-partito basata sull’appartenenza, si delineavano forme di “conquista del consenso” in cui il carisma del leader non era espressione di una solida realtà organizzata ma quasi un surrogato di essa, fortemente alimentato dai media. Nutrito di coreografie e di dissoluzioni della politica: l’irrompere di “nani e ballerine”-per dirla con il socialista Formica- faceva da contorno al primo delinearsi di un “partito personale” che avrebbe avuto poi incarnazioni molto più corpose (e un’apoteosi di nani e ballerine molto più indecenti). Contemporaneamente sistema politico e sistema televisivo iniziarono ad intrecciarsi sempre più strettamente, sino a diventare quasi indistinguibili.
Vent’anni fa, nel crollo della “prima Repubblica”, fu forte l’illusione che i processi degenerativi avessero riguardato solo il sistema dei partiti: furono così rimosse le loro conseguenze nel corpo vivo della “società civile”, sempre più aliena se non ostile -in una sua parte non irrilevante- ad un universo di regole e vincoli. Mancò allora -come già era accaduto in altri momenti della nostra storia- un esame di coscienza collettivo, una riflessione seriamente autocritica sul modo di essere del Paese e sul suo deformarsi. Mancò anche una chiara proposta riformatrice, intessuta di “buona politica”: e così agli occhi di milioni di elettori il “nuovo” fu incarnato dall’antipolitica e dal populismo mediatico di Umberto Bossi e di Silvio Berlusconi.
Oggi, in condizioni molto più gravi di allora, siamo di nuovo a quel bivio. E appare ancor più debole la speranza che questo Paese riesca ad esprimere sia una “destra normale” sia una sinistra coerentemente ed efficacemente riformatrice, adeguata ai nodi drammatici che sono sul tappeto. Sul primo versante le macerie del Pdl lasciano trasparire la vera trama del tessuto ordito da Silvio Berlusconi, intriso di indecenza, arroganza ed estraneità alla democrazia: e forse sarà un bene se il Centro si troverà a svolgere in qualche modo una “funzione vicaria”, assumendo al suo interno anche i compiti di una destra democratica di cui non si vede traccia.
Poca luce, o una luce ancora inadeguata, viene però dallo stesso centrosinistra, unico possibile protagonista di un mutamento reale. È difficile rimuovere un dato evidente: pur nello sfacelo della maggioranza esso non è riuscito a conquistare neppure un elettore in più e ne ha invece persi a sua volta. È un caso forse unico nella storia, non solo italiana, ma non sembra sollecitare le riflessioni necessarie. In questo scenario è difficile comprendere il primo entusiasmo per il risultato siciliano, ed è altrettanto difficile pensare che le differenti ipotesi oggi in campo siano all’altezza di una crisi così radicale della democrazia. Neppure dopo queste elezioni, inoltre, il Pd sembra aver compreso che nessun partito è oggi credibile se non mette al primo posto una drastica riduzione dei costi e delle immoralità della politica: con proposte di lunga lena e con scelte immediate, simboliche e concrete al tempo stesso. Anche con decisioni unilaterali, anche con l’“autoriduzione” autonoma di privilegi e prebende: più di un anno fa Mario Pirani lo aveva proposto al Pd su queste pagine con grande forza e lucidità ma le risposte non sono venute. Oggi non sono più differibili scelte esemplari e limpide, capaci di dimostrare davvero ai cittadini che “non tutti sono uguali”. Capaci di convincere gli elettori che una brutta pagina viene definitivamente e radicalmente chiusa, e si può iniziare a scrivere collettivamente un nuovo libro. Pochi giorni fa Massimo Salvadori ha ricordato la bellissima lettera scritta nel 1944 da un giovane partigiano, Giacomo Ulivi, alla vigilia della sua morte: “Tutto noi dobbiamo rifare (…). Ma soprattutto, vedete, dobbiamo rifare noi stessi”. In quella stessa lettera Ulivi aggiungeva: l’inganno peggiore di una “diseducazione ventennale” è stato quello di convincerci della “sporcizia” della politica, e di intaccare così “la posizione morale, la mentalità di molti di noi. Credetemi: la cosa pubblica è noi stessi (…), la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo, ogni sua sciagura è sciagura
nostra”. Ancora una volta, dobbiamo ripartire da qui.
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