L’assenza del Cavaliere diventa un alibi per un partito in crisi

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Ma il vero punto interrogativo è Silvio Berlusconi. Nessuno è in grado di prevedere se appoggerà  o boicotterà  l’iniziativa del proprio partito: anche se Alfano ha già  detto che gli cambierà  nome. Il Cavaliere potrebbe lasciare la situazione in sospeso, mentre lievitano le voci di una sua lista personale e quelle di un suo accantonamento graduale. L’unico risultato che per il momento si intravede, è un Pdl ridotto a percentuali di un terzo rispetto a quattro anni fa. I berlusconiani che conservano una fede irriducibile accusano i vertici di avere rovinato una macchina prima imbattibile.
Alfano e il gruppo dirigente sono più realisti. Vedono in quanto è successo dalla caduta del centrodestra al governo di Mario Monti, a oggi, le tappe di un declino inesorabile del Cavaliere; e l’esigenza di passare ad un’altra fase per salvare il salvabile. Ma debbono tenere conto di chi si dice convinto che la riapparizione di Berlusconi restituirebbe d’incanto strategia, identità , entusiasmo. E consensi. Pretoriane come Daniela Santanchè si dicono «arrabbiate» con Berlusconi per un disastro che nasce dalla sua «non decisione». Analisi interessante: ripropone il leader come l’unico capace di rimediare a una situazione fallimentare, e intanto gliene attribuisce la responsabilità . «Queste primarie senza Berlusconi fanno un po’ ridere», sostiene Santanchè. «Chi pensa che il Pdl possa esistere senza di lui è ridicolo».
Ma intanto ammette che «un giorno è bianco, un giorno è rosso, e un giorno è giallo: devastante, per il nostro elettorato». Il problema sembra dunque un po’ diverso dal dilemma sul ritorno o meno del Cavaliere. Ritornare per fare che cosa? E con quale seguito? La domanda riguarda ormai la sopravvivenza di un centrodestra con Berlusconi assente politicamente. Il massimo che alcune delle sue ex ministre sono disposte a concedergli è di fare «il padre nobile» del partito: espressione che probabilmente non tutti sono disposti a sottoscrivere. L’appoggio del grosso della nomenklatura alla candidatura di Alfano è esplicito.
La presenza di altri quattordici aspiranti presidenti del Consiglio targati Pdl, però, implica il rischio di una «fiera delle vanità », segnalato dell’ex ministro degli Esteri, Franco Frattini. E comunque sottolineano il passaggio da una leadership assoluta e carismatica ad un embrione di collegialità  che può portare alla frantumazione. Probabilmente era inevitabile dopo una lunga fase di assolutismo. Le conseguenze, tuttavia, continuano ad essere imprevedibili, perché il Pdl sembra ancora dipendente da quanto il suo fondatore farà  o eviterà  di fare o di dire. Per paradosso, lo scontro dialettico della scorsa settimana all’Ufficio di presidenza con Alfano aveva permesso di misurare le forze; e di abbozzare una strategia. Il silenzio berlusconiano, invece, promette di prolungare l’incertezza e le divisioni interne.
Soprattutto, inserisce un ulteriore elemento di confusione nella trattativa sulla legge elettorale. E offre un pretesto per il «no» del Pd, sicuro comunque di vincere. Pier Ferdinando Casini, leader dell’Udc e fautore del Monti bis, dice di temere un nulla di fatto; e dunque «un restyling dell’Unione» che portò a un effimero governo Prodi nel 2006. Il vicesegretario del Pd, Enrico Letta, condivide il bisogno di una riforma elettorale, per quanto transitoria. Ma se non succede nulla, anche il centrodestra forse salderebbe ciò che diventerà  il Pdl e la Lega del dopo Bossi. D’altronde, l’esigenza di Alfano di arginare i progetti centristi di Casini gli fa esorcizzare qualunque prospettiva di un secondo governo Monti: a meno che il premier non si candidi. Sono tutti ottimi argomenti per il populismo di Beppe Grillo e il suo Movimento 5 Stelle


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