by Sergio Segio | 29 Novembre 2012 7:42
Le ultime dichiarazioni del presidente Monti sulla opportunità che il sistema sanitario trovi nuove fonti di finanziamento, ovvero – per dirla in termini più trasparenti – che si faccia ricorso ad assicurazioni private di fatto sostitutive del servizio pubblico anche in questo settore del welfare, confermano un aspetto paradossale: quanto nelle politiche sociali non è accaduto nel trentennio trascorso – quando l’espansione del neoliberismo ha pervaso le visioni teoriche dominanti, le scelte concrete e il senso comune dell’opinione pubblica – rischia di verificarsi adesso. Dopo che cinque anni di crisi globale e i controproducenti tentativi di fuoriuscirne, applicando le stesse politiche che l’hanno determinata hanno evidenziato il fallimento di quella ideologia e, in particolare, della pretesa che i mercati possano soddisfare con efficienza ed efficacia i bisogni sociali.
La stessa Economia del Benessere, un ramo nobile della teoria economica liberale, da circa un secolo fornisce contributi analitici che dimostrano le ragioni non solo equitative, ma anche di efficienza economica, che inducono a limitare, regolamentare o sostituire del tutto il mercato in campo sociale mediante interventi pubblici. I dati statistici (come quelli Ocse di seguito utilizzati) confermano queste indicazioni.
In paesi come gli Stati uniti, dove in omaggio al fondamentalismo individualista ci si ostina a non capire i vantaggi che in alcune circostanze possono derivare da scelte pubbliche e dove la prestazioni sanitarie sono organizzate dal mercato per oltre la metà , la spesa complessiva è pari al 17,6% del Pil.
In Europa, dove la quota della spesa sanitaria pubblica su quella complessiva oscilla intorno ai tre quarti, quest’ultima in nessun paese supera il 12%; tuttavia, mentre nei paesi europei la copertura sanitaria si estende all’intera popolazione, negli Usa quasi il 19% dei suoi abitanti non sono sufficientemente ricchi da potersi permettere un’assicurazione privata, ma non sono nemmeno tanto poveri da poter accedere all’assistenza pubblica.
In Italia la spesa sanitaria pubblica è pari a circa il 7,4% del Pil e rappresenta circa l’80% di quella complessiva la quale arriva a superare di poco il 9% del Pil. Sia la nostra spesa complessiva sia quella pubblica sono inferiori alla media dei 15 paesi originari dell’Unione europea. Particolarmente istruttivo è il confronto della spesa sanitaria procapite che nel nostro paese, tra quelli dell’Eu15, è superiore (di poco) solo a quella portoghese, è sostanzialmente uguale a quella greca e è inferiore anche di moltissimo a quella degli altri paesi (quella tedesca è del 46% superiore alla nostra). Negli Usa la spesa procapite è superiore del 278% alla nostra ma non ci sono dati che possano far pensare che la situazione sanitaria americana sia superiore; anzi, qualche dato farebbe pensare al contrario (per esempio, in Italia la vita media attesa è superiore a quelle americana e la mortalità infantile è circa la metà ; ma un confronto simile richiederebbe molto più dettaglio informativo).
Ma questi dati sono vecchi di un paio d’anni e nel frattempo sono state prese ulteriori misure restrittive del nostro sistema di welfare (si pensi agli interventi sulle pensioni e nell’istruzione) con l’erronea motivazione che ciò favorirà la ripresa della nostra economia. Ma anche nei paesi come la Germania dove le pulsioni della visione conservatrice sono ancora forti e diffuse non manca l’intelligenza di capire che la spesa sociale, adeguatamente modulata, non è assimilabile ad un consumo che in tempi di crisi non ci si potrebbe permettere, ma è la forma d’investimento più produttiva che c’è, sia sul piano degli equilibri e della coesione sociale sia per la competitività e la crescita a qualitativa e quantitativa del Pil.
Sia nella previdenza che nella sanità l’agenda Monti vuole non aggiungere nuove prestazioni private a quelle pubbliche, ma sostituire le prime alle seconde che, a tal fine, vengono consistentemente indebolite e rese inadeguate alle necessità . In entrambi i casi l’effetto sarà che i bisogni di sicurezza previdenziale e sanitaria saranno soddisfatti utilizzando lo strumento di mercato che è indiscutibilmente più costoso, meno efficace e meno equo poiché discrimina in funzione del reddito l’accesso a servizi di natura primaria. Naturalmente, qualcuno ci guadagnerà e per riuscirci cercherà di coinvolgere chi potrà essere utile a raggiungere quel risultato, ma il Paese nel suo insieme ci rimetterà .
D’altra parte, non è un caso che le statistiche internazionali mostrino che la perdita di posizioni del nostro paese si registrano non solo sul piano della crescita economica e nella divisione internazionale del lavoro – dove scontiamo la nostra decrescente capacità d’investire in capitale umano, innovazione e sicurezza sociale. Contemporaneamente al peggioramento economico, nel nostro paese è cresciuta anche l’ineguaglianza nella distribuzione del reddito che ha raggiunto livelli (indice di Gini) superiori alla media Ocse e, ad esempio, a quelli di paesi come Germania e Francia.
E’ questa la caduta economica e sociale che il nostro paese ha imboccato da tempo e l’agenda Monti rivendica con maggior convinzione proprio la visione che di quella caduta è corresponsabile. In questo è favorita dal fatto che il suo ideatore è esente dalle cialtronerie dei passati governi di destra e si ammantata di un’immagine tecnocratica che agli occhi dell’opinione pubblica fa premio sugli attuali deficit della politica. Dunque, per la sinistra, da un lato è inutile ripiegare verso posizioni convenzionali e moderate (è più credibile Monti); d’altro lato occorrono programmi coerenti ai propri valori, ma anche tecnicamente fondati e politicamente realizzabili, capaci di rimuovere la sfiducia nella politica.
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