La variabile egiziana

by Sergio Segio | 17 Novembre 2012 8:56

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Oggi Hamas trova sponda non tanto nel frantumato “Asse della Resistenza” – i rapporti con la Siria di Assad nemica della Fratellanza locale sono chiusi – ma con storici alleati degli Stati Uniti come l’Egitto e Qatar. Mentre Israele ha perso l’appoggio della Turchia.
Il mutamento geopolitico indotto dalle primavere arabe rappresenta un ovvio vantaggio per Hamas. Dopo che la Fratellanza egiziana è andata al potere al Cairo, Gaza non è più la prigione a cielo aperto dell’era Mubarak. Anche se la gabbia si è spezzata solo ora, con l’apertura di Refah ai palestinesi che fuggono dai bombardamenti di Tsahal. Non era andata così in estate, quando il nuovo governo egiziano aveva chiuso i tunnel usati per aggirare il blocco imposto da Israele. L’apertura del confine è segno evidente che la Striscia ha ormai un retroterra politico, non solo geografico.
Sebbene il governo del Cairo abbia la necessità  di non tagliare i ponti con la comunità  internazionale per garantirsi i crediti decisivi per uscire dalla difficile situazione economica, la Fratellanza egiziana non poteva mostrarsi tiepida nei confratelli palestinesi. La comunanza ideologica e religiosa e il valore simbolico del conflitto impediscono all’Egitto, come ha ricordato Morsi, di lasciare da sola Gaza. Sulla scelta ha inciso anche la pressione dei salafiti che invocano la denuncia del trattato di Camp David.
Per far fronte a questi diversi imperativi, il premier Qandil è andato a Gaza per esplorare la possibilità  di un cessate il fuoco; mentre il presidente Morsi ha denunciato “l’aggressione israeliana” come crimine contro l’umanità . Hamas gradisce, tanto che il suo leader politico esterno, Meshaal, ha ricordato che il nuovo corso egiziano mette fine al tempo in cui Israele poteva fare ciò che voleva con i palestinesi.
Hamas sa che in caso di conflitto non può pensare a una vittoria militare: nonostante i razzi forniti dagli iraniani giungano alle porte di Tel Aviv, e per la prima volta colpiscano Gerusalemme, paradossalmente cristallizzata da quel lancio nel suo status di capitale del Nemico, il divario nei rapporti di forza è evidente. Ma punta alla vittoria diplomatica. Resistendo fino a quando la pressione internazionale imponga a Israele, come nel 2008, di fermarsi prima di decapitare il suo potere.
Hamas conta sul fatto che l’attacco mette a rischio le già  critiche relazioni israeliane con l’Egitto. Specularmente, Netanyahu vuole far capire a Morsi che l’atteggiamento verso Hamas è la cartina tornasole nei rapporti tra i due paesi. Un doppio test teso a verificare sin dove si può spingere, e a che prezzo, l’appoggio egiziano al movimento palestinese. Un tassello decisivo per gli israeliani, anche in previsione della deflagrazione di un conflitto regionale a effetto domino, che prenda il via dalla vicenda del nucleare iraniano, dalla crisi siriana o da un incidente libanese. Il tutto mentre si decompone ulteriormente la leadership dell’Anp, incapace di uscire dal ridotto della West Bank, se non seguendo Hamas sul terreno dell’unità  nazionale contro la “guerra di aggressione”.
La radicalizzazione del conflitto semplifica il campo: in quello palestinese gioca solo Hamas. Con grande soddisfazione della destra israeliana che non ha mai creduto alla soluzione dei “due Stati”.

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