La scelta dell’America né bianchi, né operai: i nuovi americani

by Sergio Segio | 7 Novembre 2012 5:46

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C’erano anche il cubano americano Marco Rubio, senatore della Florida, e l’indiano americano Bobby Jindal, governatore della Louisiana, nel comizio delle star repubblicane che hanno tirato la volata a Romney qualche giorno fa a Cincinnati, Ohio. Sono i volti della nuova America cui i repubblicani devono cominciare ad affidarsi: pena la marginalizzazione per anni a venire, non possono più permettersi di essere il partito di una classe bianca che invecchia mentre giovani istruiti, donne (specialmente non sposate), abitanti delle città  e minoranze (che da sole formano già  un quarto dell’elettorato) trovano la propria voce nel partito democratico. Nel 2008 furono questi gruppi di elettori a far vincere Obama, ma anche i liberal devono chiedersi se un altro candidato possa avere il suo stesso appeal e riconquistare la sua coalizione multi-colore.
Le minoranze
I demografi dicono che l’America è vicina a un «tipping point», un punto di svolta. Secondo William Frey, della Brookings Institution, queste elezioni sono state «l’ultimo hurrah per i bianchi». D’ora in poi i repubblicani non potranno più contare sulla cosiddetta «southern strategy», ossia puntare quasi esclusivamente su elettori «sudisti», evangelici e rurali.
Per la prima volta nella storia l’anno scorso i bambini nati da coppie miste o appartenenti alle minoranze — 2,02 milioni — hanno sorpassato le nascite dei bianchi non ispanici: 50,5% (erano il 37% nel 90) contro il 49,5%. Un dato premonitore di quello che accadrà  tra un paio di decenni, quando l’America potrà  dire addio alla sua maggioranza bianca: l’aumento esplosivo (anche se frenato nell’ultimo paio d’anni dalla crisi economica) dell’immigrazione e la crescita costante della popolazione latina e asiatica dovrebbero condurre al sorpasso attorno al 2040.
La campagna del 2008 è stata in qualche modo il racconto di un Paese che questa trasformazione la guardava con speranza e fiducia, materializzandola nel volto di quell’uomo dal nome improbabile, metà  africano metà  americano del Kansas, con una famiglia che, come lui stesso ama ripetere, «quando si riunisce sembra un’assemblea delle Nazioni Unite». Ma questa campagna, e prima ancora i quattro anni di Obama al governo, con il fallimento del suo sogno bipartisan e l’esplosione dei Tea Party, hanno raccontato invece un’America che davanti al cambiamento punta i piedi. Di mezzo c’è stata una crisi economica, e i limiti di un uomo caricato di aspettative messianiche, ma le trasformazioni che attraversano l’America non si possono fermare.
Se in una situazione economica ancora traballante e con una disoccupazione così alta il presidente è stato in testa ai sondaggi per quasi tutta la campagna, nonostante un misero 37% di sostegno da parte dell’elettorato bianco, è perché è sempre rimasto fortissimo tra gli elettori delle minoranze. Soprattutto tra i latinos, che quattro anni fa gli avevano accordato il 67% delle preferenze e che sono decisivi in molti stati chiave. Il New Mexico, dove gli ispanici sono ormai il 46,7 per cento della popolazione, non è neanche più comparso nella colonnina degli Stati indecisi. E pensare che nel 2004 Karl Rove, il «cervello» di Bush, considerava i latinos un gruppo di elettori in bilico: in fondo George W. aveva ottenuto il 44% delle loro preferenze. Peccato che poi sia arrivato il pugno duro sull’immigrazione. Il «Dream act», che garantirebbe la residenza e un percorso verso la cittadinanza ai giovani entrati illegalmente nel paese con i loro genitori, è fermo al Congresso per l’opposizione repubblicana. Ma c’è da scommettere che se ne tornerà  a discutere. Ci sono voci pesanti nel partito, come quella di Jeb Bush, che da tempo suonano l’allarme: senza il voto ispanico il Grand Old Party è destinato a diventare una forza di minoranza. Dominare le preferenze dell’elettorato bianco, come Romney ha fatto per tutta la durata della campagna, non è più sufficiente.
L’elettore post-industriale
Ma non è solo la composizione razziale ed etnica dell’America a cambiare. Il passaggio, in molte aree del Paese, a un’economia post-industriale basata sulla produzione di idee più che di beni, ha aumentato il peso di un tipo di elettorato fatto di professionisti urbanizzati, che tende a votare democratico. Di più: che ha sostituito il «blue collar voter», l’operaio, come spina dorsale della coalizione democratica. Ne parlavano, descrivendo un’economia che ha la sua base nelle aree urbane e suburbane ribattezzate «ideopolis», John Judis e Ruy Teixeira in un famoso libro di ormai dieci anni fa, The Emerging Democratic Majority. Molte di queste aree sono dentro i famosi stati indecisi: Charlotte, il triangolo della ricerca in North Carolina, i sobborghi della Virginia settentrionale, la regione attorno a Denver, Colorado, Orlando e il sud della Florida. E poi ci sono gli spostamenti interni di popolazione, come quelli dei californiani liberal che hanno scelto di andare a vivere nell’area di Reno, in Nevada, di Albuquerque in New Mexico e in Colorado.
La religione
E infine, per quanto ancora le campagne elettorali si combatteranno su temi sociali come aborto e matrimoni omosessuali, su cui spingono soprattutto i repubblicani, davanti a un elettorato che vede crescere i non credenti (un americano su cinque, uno su tre tra gli under 30)? Un altro gruppo, i non affiliati, che secondo una recente indagine del Pew sono molto liberali sui temi sociali, meno sul ruolo del governo, ma comunque votano a larga maggioranza progressista. E sono quindi un gruppo solidamente democratico almeno quanto gli evangelici bianchi (anche loro il 19% della popolazione) possono essere considerati solidamente repubblicani.
Non è detto, anzi molto probabilmente non è vero che la demografia è destino. La sicurezza nazionale – come è accaduto dopo l’11 settembre, o l’economia come quest’anno – possono risultare più importanti di qualsiasi divisione razziale, di censo e di istruzione. Soprattutto, i partiti possono ridefinire la loro identità . È questa la sfida che attende i repubblicani nei prossimi quattro anni.
Marilisa Palumbo

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