La rivoluzione dei bonzi
PECHINO. Isolato dal mondo e sotto assedio, il Tibet offre la prova estrema della sua resistenza all’occupazione della Cina. La guerra infinita nel cuore dell’Himalaya, riesplosa nel 1949 dopo le alterne occupazioni straniere negli anni dei conflitti mondiali, giunge così in questi silenziosi giorni al suo ultimo stadio: le auto-immolazioni con il fuoco, da sacrifici personali, si trasformano nel suicidio di massa di un popolo che preferisce morire, piuttosto che sottomettersi al dominio di Pechino. È dall’inizio del 2012 che l’escalation delle torce umane, prima monaci e suore buddisti, poi giovani e infine semplici padri di famiglia, ha conosciuto un drammatico salto di qualità . Questo novembre segna però l’ingresso dello scontro in una fase nuova, priva di certezze e densa di pericolose conseguenze per l’intera comunità internazionale. Al ritorno dei “bonzi”, termine con cui i portoghesi indicavano i religiosi buddisti di alto rango e i giapponesi quelli disposti al suicidio bellico, corrispondono nelle ultime ore altre forme di protesta.
Le regioni cinesi del Tibet storico sono nuovamente scosse da rivolte popolari su larga scala. Una sessantina di monaci e studenti, in diverse province, hanno cominciato uno sciopero della fame. E per la prima volta, da quando cinquantatré anni fa il 14esimo Dalai Lama è stato costretto a fuggire in India, l’insurrezione non ha la città santa di Lhasa quale epicentro.
A ribellarsi contro la colonizzazione dell’etnia “han”, la prevalente in Cina, sono i tibetani sparsi in città , villaggi, conventi e accampamenti nomadi distanti tra loro centinaia di chilometri. La combinazione tra il moltiplicarsi delle auto-immolazioni e la diffusione sul territorio cinese di un insieme articolato di rivolte, non ha precedenti nella storia tragica del Tibet. Quattro elementi rendono però l’agonia tibetana e la repressione cinese un evento che, assieme all’Asia, può infiammare anche l’opinione pubblica dell’Occidente: Pechino dimostra di non essere nelle condizioni di soffocare le proteste, i sacrifici offendono solo chi ha il coraggio di promuoverli, i media internazionali non possono raggiungere le zone delle sommosse e la cancellerie delle superpotenze ostentano un’assoluta indifferenza per quello che il Dalai Lama ha definito «genocidio culturale».
L’ignorata “Spoon River” del Tibet è naturalmente lo shock più impressionante di questi anni. Repressa nel sangue l’ultima grande rivolta dei monaci a Lhasa, alla vigilia delle Olimpiadi di Pechino nel 2008, la prima autoimmolazione si è consumata nel marzo 2010 fuori dal monastero di Kirti, nelle prefettura di Aba, regione del Sichuan. Un giovane monaco si diede alle fiamme dopo essersi inzuppato di cherosene, gridando slogan contro l’occupazione cinese, denunciando lo svuotamento dei conventi buddisti da parte dell’esercito di Pechino e invocando il ritorno del Dalai Lama a Lhasa. Quanto accade ora lontano dai nostri occhi è stato innescato da questa scintilla, di cui pochi diedero conto.
Nelle settimane successive il monastero di Kirti è stato occupato dai militari cinesi. Decine di monaci sono stati deportati in “campi dirieducazione”delpartitocomunista, situati in luoghi ignoti. Alcune ali del convento sono state assediate a lungo e infine prese per fame e per sete. Da allora la prefettura di Aba è chiusa e nessuno può accedervi senza un permesso speciale del governo cinese. La prima auto-immolazione di Kirti ha avuto però per i tibetani, umiliati e disperati davanti allo sviluppo miliardario promosso da Pechino nella loro terra di origine, l’effetto di una scossa. Come se un giovane monaco consumato dal fuoco avesse lanciato il segnale collettivo di ripresa della guerra.
Le torce umane buddiste, che nulla hanno a che fare con i kamikaze dell’islam, non si sono più fermate e il bilancio di oggi scuote le coscienze in tutto il pianeta: 89 vittime ufficiali in poco più di due anni e mezzo. Ma soprattutto 75 solo nel 2012 e 27 in questo mese di novembre, quasi una al giorno. Nessun cronista può verificare questi dati e testimoniare gli eventi dai luoghi in cui si verificano. Il bollettino viene diffuso dalle associazioni degli esuli tibetani e da Radio Free Tibet, basata negli Usa, ma le autorità cinesi non lo hanno finora contestato. Ciò che invece ha fatto Pechino, in modo riservato, è stato scatenare una repressione che per violenza non ha precedenti nelle regioni che chiedono l’indipendenza, o una forma spinta di autonomia.
Ad allarmare la Cina, il crescendo dei “bonzi” tibetani mentre il presidente Hu Jintao inaugurava il 18° Congresso del partito comunista, che ha appena nominato la leadership nazionale dei prossimi dieci anni. L’Occidente in crisi è rimasto impressionato dall’obbedienza cieca di 1,3 miliardi di cinesi. Il potere autoritario della seconda economia del mondo è succeduto a se stesso seguendo meccanismi misteriosi, ha consegnato la nazione ai “principi rossi” che discendono dagli eroi rivoluzionari, compagni di Mao Zedong, e nessuno è riuscito pubblicamente ad obiettare nulla su un regime militare sempre più simile a una monarchia capitalista. Nessuno con l’eccezione del Tibet, dove dall’8 novembre è divampata la rivolta combattuta con i suicidi, le manifestazioni degli studenti e gli scioperi della fame.
Togliersi la vita, anche per un buddista, è un atto che offende gli dei. Farlo in massa, rinunciando alla reincarnazione, è un sacrificio che testimonia il livello di disperazione dei tibetani e il loro senso di abbandono da parte della comunità internazionale. È chiaro che lo scontro monta in una situazione politica di particolare delicatezza. Il Dalai Lama, 78 anni, si è dimesso dalla guida del governo in esilio. Xi Jinping si appresta a governare la Cina fino al 2022 e il nuovo premier tibetano Lobsang Sangay, esule a Dharmashala, cerca di tenere unito il suo popolo oppresso.
Lhasa e Pechino disegnano segretamente il profilo futuro delle regioni tibetane, dopo la morte di Tenzin Gyatso, trattando la successione del Panchem Lama nominato dal partito e la reincarnazione di un Dalai Lama anche fuori dai confini della Cina. Da una parte la sopravvivenza del popolo tibetano e della sua civiltà intrisa dalla fede, dall’altra la stabilità sociale e l’integrità territoriale della superpotenza dell’Asia. Una posta alta al punto che ognuno capisce come nessuno dei contendenti possa ormai ritirarsi dalla battaglia.
Al di là delle ragioni storiche e politiche, su cui il dubbio deve rimanere lecito e i torti sono condivisi, il punto oggi è la violenza della repressione cinese e la disparità delle forze in campo. Per evitare che il mondo torni ad accorgersi della tragedia tibetana, sollevando il problema del rispetto dei diritti umani, Pechino ha varato una serie di punizioni contro le famiglie e i villaggi di chi si auto-immola, vietato ai tibetani di partecipare alle cerimonie funebri dei “bonzi”, svuotato i monasteri buddisti e arruolato migliaia di agenti con l’obiettivo di impedire alle persone di morire bruciate.
Le regioni del Tibet storico sono oggi un immenso lager di montagna, controllato dall’esercito e da una rete di telecamere che filmano gli abitanti anche tra le statue dei Buddha e nell’intimità . Squadre di pompieri cinesi, travestiti da monaci tibetani, vengono infiltrate nei conventi per impedire che il fuoco della protesta distrugga tesori dell’arte e della storia. E plotoni dell’esercito, dal Qinghai al Gansu, disperdono invano con idranti e manganelli migliaia di ragazzi che in queste ore protestano contro le lezioni di «patriottismo rosso», o contro l’abolizione della lingua tibetana nelle scuole. La forza spietata dei militari, come nel 1989 in piazza Tienanmen, contro una popolazione inerme e abbandonata. Per questo al Tibet, per non morire, non rimane che uccidersi: sperando che il pianeta del denaro non scelga, come sempre ha fatto, di voltarsi opportunisticamente dall’altra parte.
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