by Sergio Segio | 30 Novembre 2012 7:26
«S’era capito da un po’ che le cose stavano cambiando», spiega Menachem Gantz di Yedioth Aharonot, autore di quell’editoriale: «Già con Frattini, quando ci fu l’astensione italiana sull’entrata della Palestina nell’Unesco, Bibi Netanyahu aveva chiesto chiarimenti. Gl’italiani l’avevano tranquillizzato: teniamo un basso profilo all’Unesco, oggi, per esservi più vicini all’Onu, domani… Infatti s’è visto: gli amici non ti devono per forza dare ragione, ma devono almeno parlar chiaro. Terzi non ha mai accennato a un voto filoarabo. E ora la sensazione israeliana è quella dei ladri che t’entrano in casa di notte. Questo cambierà qualcosa nei rapporti». Cambio di stagione. Se l’Autorità palestinese ride — «era l’ora d’una posizione più giusta ed equilibrata», commenta Nemer Hammad, storico rappresentante in Italia — se l’ex premier Ehud Olmert sorride, lo choc nel governo Netanyahu è forte. Solo domenica scorsa, la stampa citava due Paesi sicuri sul fronte del no: la Repubblica Ceca e l’Italia. Tutto è avvenuto mercoledì notte, quand’è parso chiaro che gli Usa lasciavano volentieri agli europei la libertà di sganciarsi. «Per noi è stata una sorpresa dell’ultimo momento — commenta l’ambasciatore a Roma, Naor Gilon — una delusione molto grande, anche se non inciderà sui rapporti bilaterali». Avi Pazner, voce del governo, fa capire che perfino un’astensione italiana sembrava improbabile: «Noi speravamo che votassero contro…». «Gl’israeliani erano troppo sicuri — spiega Mustafa Barghouti, già ministro palestinese —. Dopo la scelta francese, è partito un effetto domino. Hollande s’è trascinato dietro i “sì”, riaprendo alla soluzione dei due Stati. La reazione del mondo alla guerra di Gaza, inutile, e il sostegno di Hamas, mi fanno pensare che qualcosa si può tentare. L’Italia? Ha fatto una scelta di realismo ed è tornata alla sua lunga tradizione di sostegno della causa araba». Tradizione o, come sussurrano in casa Netanyahu, tradimento? La telefonata di Monti a Gerusalemme serve a rassicurare, ma non è detto che basti. Perché ora è Bibi sulla graticola, a due mesi dal voto: «Questo collasso diplomatico — dice l’analista Shimon Shiffer — è il risultato delle bombe su Gaza, che hanno dato a Hamas un riconoscimento politico e spinto gli europei, per reazione, a dare più forza ad Abu Mazen». A irritare Netanyahu sono i francesi, ma qui è facile essere tirati nelle contese e il premier italiano l’ha già sperimentato: quando parlò d’un ritorno ai confini di prima del ’67, a Pasqua, nel Likud ci fu chi lo etichettò subito come filoarabo; quando sei mesi dopo citò Israele «casa nazionale del popolo ebraico», la stessa destra ne forzò il senso, sostenendo addirittura che «l’Italia, unica in Europa assieme alla Polonia», aveva escluso «il diritto al ritorno per i profughi palestinesi». «Questa è una piccola frattura — dice Dore Gold, ex consigliere di Bibi, già ambasciatore all’Onu —. Israele ormai non s’aspetta più nulla dall’Ue e non l’accetterà più come mediatore imparziale. Anche l’Italia, che era fra i Paesi garanti dell’accordo di Oslo, ne ha favorito la violazione». «L’Italia ha fatto benissimo — pensa invece Yossi Beilin, ex ministro laburista — conosco Terzi e so che è amico d’Israele. Non è un voto contro Oslo, perché l’accordo riguarda i confini o l’acqua, non i diritti dello Stato palestinese. Sono molto felice. Ora, si deve passare a una cosa più concreta: i negoziati».
Francesco Battistini
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