by Sergio Segio | 10 Novembre 2012 8:14
A Rimini il 6 e 7 novembre si è tenuta una due giorni che aveva l’obiettivo di lanciare anche in Italia un piano per «un nuovo sviluppo in chiave verde». Messa così il rischio di ingannare qualcuno è forte, specie coloro che con l’acqua alla gola rischiano di aggrapparsi a qualsiasi scialuppa, anche si trattasse del Titanic.
Promosso dal ministro Clini e da 39 imprese con l’ausilio di 1000 esperti, questo evento genera più inquietudini e preoccupazioni che speranze.
Innanzitutto il metodo: nessuna collaborazione di comitati, reti, associazioni, contadini, movimenti, lavoratori, centri di ricerca che da 20 anni lavorano per difendere i beni comuni, ridurre la nostra impronta ecologica, promuovere altra economia, curare il territorio, garantire le nostre produzioni ed economie locali, lottare contro la svendita delle terre demaniali e delle risorse idriche, offrire prodotti di qualità liberi dall’inquinamento e dallo sfruttamento sul lavoro, studiare ed approfondire la riconversione ecologica del sistema produttivo ed energetico.
Le settanta proposte presentate a Rimini sono pensate esclusivamente dal punto di vista delle imprese e delle banche, incapaci per loro stessa natura di affrontare le cause che generano l’insostenibilità sociale ed ambientale. L’idea semplice, che ha già funzionato in passato, è che sfruttando la crisi, in questo caso quella ecologica, si costruisca un «sentire» che legittimi l’ultima ondata di privatizzazioni su beni e settori fondamentali per l’interesse generale, assicurandosi utili da capogiro a cui far seguire l’ennesima bolla speculativa garantita dagli strumenti della finanza.
Ai mercati ed agli investitori privati la green economy affida scelte non solo di politica industriale ma anche energetica. Proposta coerente con la “strategia energetica nazionale” del governo Monti che non risponde nemmeno agli obiettivi di decarbonizzazione europei ma addirittura raddoppia la produzione nazionale di idrocarburi, da il via alle perforazioni e vuole trasformare il paese in un «hub» del gas. Cittadini, lavoratori, comunità , cioè i soggetti della democrazia, i detentori della sovranità , cancellati insieme alle loro necessità e proposte. La crisi ecologica come grimaldello per costruire una retorica capace di catturare in termini cognitivi qualsiasi ipotesi di soluzione alternativa al modello economico che l’ha generata.
A Rimini, ministri e imprenditori hanno in realtà eluso il problema fondamentale di ogni politica che punti alla sostenibilità : la diminuzione delle quantità delle produzioni e dei consumi e l’equità sociale.
Se l’obiettivo è costruire comunità sostenibili, questa green economy non è lo strumento idoneo. Una società sostenibile non può scindere le questioni sociali e le opportunità economiche dai limiti ambientali che devono essere garantiti per sostenere la riproducibilità della vita. La relazione tra ecosistemi e sistemi sociali organizzati misura il livello della sostenibilità , ed il nostro è bassissimo.
Analizzandole, è ormai incontrovertibile come vi sia un nesso scientifico tra l’aumento delle diseguaglianze e la distruzione dell’ambiente.
La situazione italiana e planetaria certifica il fallimento dell’idea che sia possibile con le attuali politiche ambientali raggiungere la sostenibilità . La necessità della crescita economica teorizzata dall’attuale modello di sviluppo sbatte contro i limiti del pianeta e la riproducibilità delle risorse.
Gli stati generali della green economy a Rimini hanno continuato, insieme al governo, a portare avanti il vecchio paradigma capitalista fondato sull’accumulazione e la concentrazione di capitali, rimuovendo il problema della riduzione dei consumi, della ridistribuzione urgente della ricchezza, della creazione di posti di lavoro sicuri e salubri, della resilienza e della capacità di autorigenerazione delle risorse naturali.
Herman Daly definiva con qualche decennio di anticipo le politiche che oggi ci vengono presentate come forme di «crescita antieconomica». La conseguenza per il paese sarà un aumento dello spread sociale ed ambientale.
Proponiamo invece che la sostenibilità ambientale e sociale sia la condizione per invertire il processo di accentramento e verticalizzazione dei poteri da parte della governance a discapito della democrazia. Se l’imperativo è la riconversione per un futuro sostenibile allora è necessario costruire un modello economico capace di sostenere questo obiettivo, un modello economico fondato su tre pilastri: dematerializzazione, biocoerenza e ecosufficienza.
L’ecoefficienza più volte richiamata dalla governance da sola non basta, visto che può contribuire al paradosso di aumentare l’utilizzo di materiali ed energia invece che diminuirlo (cosiddetto paradosso di Jevons). Depurare la crescita economica dai danni ambientali e dalla perdita netta di risorse è l’utopia dei teorici del «disaccoppiamento». Se l’economia cresce anche in presenza di un tasso inferiore di consumo di risorse avremmo un aumento complessivo di flussi di energia e di materiali necessari a sostenere la crescita. Il «disaccoppiamento» è possibile in teoria solo se i processi produttivi vengono convertiti, puntando proprio sulla dematerializzazione.
Il Wuppertal Institute indica da tempo come in realtà l’ecoefficienza dovrebbe tradursi in una riduzione della domanda invece che in un aumento dell’offerta, nella ottimizzazione della funzionalità dei prodotti e nella considerazione dell’intero ciclo di vita del prodotto.
La biocoerenza seleziona invece processi produttivi ed economici compatibili con i cicli naturali. Walfang Sachs indica nell’energia solare e nei materiali biogeni le basi per un’economia biocoerente. Infine l’ecosufficienza. Senza autolimitazione e moderazione è praticamente impossibile raggiungere la sostenibilità ecologica! Una riconversione ecologica del sistema produttivo ed energetico fondata sui tre pilastri di un nuovo modello economico ci consentirebbe di creare comunità sostenibili, mettendo insieme l’obiettivo del lavoro con quello della difesa dell’ambiente.
* Portavoce A Sud www.asud.net
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