LA FORZA DI UNA DONNA

by Sergio Segio | 22 Novembre 2012 6:10

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L’intervento di Hillary Clinton, di questa donna che a 65 anni può ora definirsi davvero la “First Lady” del mondo e non più per semplice galateo coniugale, non ha creato dal nulla la tregua d’armi fra Hamas e il governo Netanyahu, ma ha dato alle due parti il pretesto al quale appigliarsi per sospendere il massacro. Come sempre fanno, israeliani e palestinesi si parlavano, a raffiche di razzi, a cannonate, a clangore di cingoli, perché l’America ascoltasse e l’America di Obama ha ascoltato. Nessuna delle due parti ha, in questo momento, interesse a contrariare Washington e a inimicarsi radicalmente il nuovo e vecchio Presidente con quattro anni di governo davanti, rimandando a casa la persona più importante dell’Amministrazione Obama umiliata e con la borsetta vuota.
Ma anche se la signora che è piombata sul teatro dell’orrore volando da Myanmar dove era al seguito del suo Capo ha raccolto un piccolo frutto che già  era maturo – il cessate il fuoco – non si è limitata a prendere atto di una decisione già  presa. Ha messo sopra questa tregua il sigillo della potenza che tiene in vita l’Egitto con i miliardi di aiuti, che puntella il vacillante prestigio di Israele in Occidente e senza la quale non ci potrà  mai essere nessun simulacro di stato palestinese e guai a chi avesse osato contrariarla. Come avrebbe potuto testimoniare il marito, William “Bill” Clinton, e come otto anni di indiscrezioni sgocciolate dalla Casa Bianca ripetevano, nessuno uomo o donna, nessun ministro, capo di governo, leader politici, vuole affrontare la collera di una Hillary offesa o scornata.
Basta guardare le immagini, i pochi minuti di video disponibili dei suoi incontri pubblici con i protagonisti del triangolo della morte, Abu Mazen il palestinese, Bibi Netanyahu l’israeliano e l’egiziano Mohamed Morsi, per vedere dall’espressione della Clinton che non avrebbe tollerato doppi giochi. Che non se ne sarebbe andata senza avere strappato almeno questa pausa nella strage, certamente non dopo la bomba esplosa dentro un autobus di linea ferendo 28 innocenti passeggeri e le foto sempre più atroci dei cadaveri di bambini accatastati come rami morti negli ospedali di Gaza, vittime difficilmente spendibili dalla propaganda israeliana come terroristi o capi militari.
Se questa tregua, ed è un “se” lungo ormai quasi 70 anni, dovesse reggere ed evolvere in un negoziato onesto da parte di Hamas, Netanyahu, Abu Mazen, l’avvocato Hillary Rodham Clinton raggiungerebbe un grado di successo quale dai tempi di Henry “Super” K Kissinger l’America, e le vittime carnefici insieme di questo conflitto non si era più visto. È possibile immaginarlo, soltanto immaginarlo, perché nelle tasche del suo immancabile tailleur pantalone lei porta un asso che i predecessori, le donne come la Rice e la Albright, uomini come Jim Baker e Alexander Haig, non avevano. Una carta chiamata Obama.
Tutti gli attori del male storico chiamato conflitto arabo-israeliano sanno infatti che a Washington c’è un Presidente che guarda con freddezza l’altoforno di odio che ribolle nella regione, che dunque ha “visto” il feroce bluff che i razzi di Hamas e la spietata rappresaglia di Tsahal, l’esercito israeliano, hanno tentato. Non è caduto nella trappola dei predecessori che si schieravano con Israele senza condizioni, per timore di inimicarsi l’elettorato ebraico negli Usa, dicendo a Netanyahu di fermarsi dopo avere esercitato il legittimo diritto alla reazione di autodifesa, Né si è fatto risucchiare da Hamas forse illusa che un Capo di Stato americano chiamato Barack e Hussein nutrisse tenerezza per il terrorismo usato come strumento di pur legittime aspirazioni nazionali. Obama è colui che con spietatezza chirurgica ordinò l’esecuzione di Osama bin Laden, come non era riuscita neppure ai bellicosi predecessori di questa presidenza.
Nella sua ultima missione prima di ritirarsi a vita pubblica (Hillary non scomparirà  dal palcoscenico nazionale e internazionale neppure dopo le dimissioni già  annunciate per gennaio) la Clinton ha potuto essere una donna forte, perché sostenuta, ma insieme sostenitrice, di un uomo forte come Obama. Di un amico, addirittura, dopo essersi tanto odiati, come raccontano le cronache delle lunghe ore consumate dai due, in perfetta solitudine, nell’ufficio privato del Presidente sull’Air Force One nel volo fra Washington e Rangoon, in Myanmar, a chiacchierare di vecchi tempi.
Qualcuno, anche nelle repubbliche arabe come l’Egitto ancora in piena transizione, oltre che a Gaza, in Cisgiordania, a Gerusalemme, a Tel Aviv, aveva sperato di trovare una crepa al vertice del potere americano per infilare di taglio i propri progetti futuri, soprattutto pensando all’Iran, l’incubo dominante nei pensieri del governo israeliano. Non lo ha trovato e tutti hanno dovuto fare buon viso al volto duro della “First Lady” della diplomazia. Magari ricordandosi che avrebbero fatto bene a non contrariare una donna che potrebbero trovarsi di fronte fra appena quattro anni non più come “segretaria”, ma come “padrona” degli Stati Uniti.

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