La Cooperazione discute di violenza contro le donne
In certe parti del mondo le bambine non hanno neanche il «diritto alla nascita»; il numero di aborti selettivi in paesi quali l’India o la Cina è ancora altissimo, come pure sono diffuse forme di violenza quali le mutilazioni genitali o il cosiddetto «ironing», cioè lo «stirare» i seni delle bambine così che non appaiano evidenti per non suscitare istinti stupratori. Basta pensare che lo sfruttamento della pedopornografia via internet, recentemente condannato come crimine transnazionale dalla Convenzione di Lanzarote, frutta alla criminalità informatica più di quattro miliardi di euro all’anno solo in Europa.
Ma altre forme di violenza si affacciano all’orizzonte del presente, forme meno identificabili con gli strumenti e con le sensibilità attuali, soprattutto perché fanno parte integrante del sistema economico e di consumo che ci condiziona e dal quale non sembra possibile uscire. Cosa significa, infatti, la costante sessuazione del corpo delle bambine, cioè la spinta ossessiva e precoce cui sono sottoposte dai modelli spettacolari a evidenziare i caratteri sessuali secondari, in particolare quelli che si esprimono attraverso la moda e gli atteggiamenti legati alla seduzione erotica, se non una forma potente quanto sottile di violenza verso i ritmi naturali della loro crescita e dell’evoluzione della loro sensibilità infantile? E ancora, non è forse violenza la stessa esposizione mediatica dei bambini ai messaggi pubblicitari, che vedono i loro coetanei nel ruolo di vittime sacrificali delle forme più sofisticate di condizionamento comportamentale?
Già negli anni cinquanta Raoul Vanaghem nel suo Manuale del saper vivere ad uso delle giovani generazioni, osservava «le rughe del vecchio consumatore sui visi dei bambini». E dunque, se queste realtà sono una costante, lo dobbiamo certamente a fattori culturali condizionati dal modello economico, che induce a considerarli normali, affidandosi e spesso coltivando ad arte una disattenzione sociale che non vede in queste forme di violenza qualcosa da cui proteggere le bambine. Ma ci sono, ancora e sempre, carenze politiche che devono essere colmate, sia a livello europeo che italiano. Un esempio tra tutti è quello dell’articolo 83 del trattato di Lisbona che riconosce come crimini le forme più comuni di violenza contro i minori, ma resta altamente lacunoso nel poter imporre agli stati membri una legislazione comune ed esaustiva in materia. E infatti, al momento, la competenza dell’Unione Europea è limitata alla sola adozione di misure legislative volte a combattere ed eliminare lo sfruttamento sessuale ed il traffico di donne e bambini. Le altre violazioni, tra cui le mutilazioni genitali femminili, la schiavitù domestica e sessuale, il maltrattamento di minori e i matrimoni forzati non possono essere oggetto di misure legislative da parte dell’Unione Europea ai sensi dell’attuale versione dell’Articolo 83. Ne consegue che è di importanza cruciale espandere il potere legislativo dell’Unione Europea, mediante la modifica dell’Articolo 83, per dotare l’Europa di una competenza legislativa generale nella definizione dei reati e delle relative sanzioni in materia di violazione, e poter anche includere di volta in volta tutte le fattispecie che attualmente rappresentano, o potrebbero rappresentare in futuro, delle violazioni senza necessità di dover modificare continuamente l’articolo.
Se invece guardiamo alle priorità europee oggi ci verrebbe da dire che i veri «beni comuni» continentali sono i banchieri e non certo i nostri bambini. Ed infine: siamo gli sgoccioli della legislatura. L’Italia ha firmato ma non ratificato la Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne. Che aspetta il Parlamento a farlo?
* Presidente terre des Hommes
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