La Bp paga ma il mare soffre ancora
Oggi, a due anni e mezzo di distanza, la Bp ha accettato di pagare una supermulta di 4 miliardi di dollari. La notizia ha fatto il giro del mondo ed è stata saluta come una delle più grandi vittorie del fronte ambientalista che è riuscito a fare breccia sull’opinione pubblica e sulla politica degli USA. Leggiamo sul sito Greenme.it: “«Abbiamo accettato la responsabilità delle nostre azioni – ha detto Bob Dudley, ad della Bp – siamo profondamente dispiaciuti del nostro ruolo nell’incidente».
Per il Governo americano la Bp aveva minimizzato il gravissimo stato della situazione di fronte alle autorità , fornendo una cifra di 12 volte inferiore rispetto alla quantità di petrolio che stava fuoriuscendo dalla piattaforma. «Noi tutti siamo profondamente rammaricati per la tragica perdita di vite umane causate dall’incidente della Deepwater Horizon così come lo siamo per l’impatto che la fuoriuscita ha avuto sulle regioni che si affacciano sul Golfo del Messico», ha detto ancora Dudley.
Ora, oltre a pagare una multa di 4 miliardi di dollari da versare nell’arco di cinque anni più un’addizionale di 525 milioni distribuita su tre anni, l’azienda si è dichiarata colpevole per 14 tipi di reato. Sulla vicenda resta ancora aperta, però, la controversia economica con gli Stati del Golfo del Messico danneggiati dall’incidente, così come le posizioni dei soccorritori che successivamente accusarono problemi di salute a causa dell’inalazione di sostanze tossiche. Inoltre, il governo statunitense ha citato in giudizio anche la Transocean, proprietaria della piattaforma accusata di aver ritardato gli interventi, e il gruppo Halliburton”.
Il procuratore generale Eric Holder che ha guidato l’indagine sottolinea come la sentenza “si erge come una testimonianza del duro lavoro di instancabili investigatori, avvocati, membri di supporto e altro personale… In aggiunta alle accuse addebitate alla Bp, la giuria federale ha rinviato a giudizio due funzionari di alto livello della Bp che erano a bordo della Deepwater Horizon il giorno dell’esplosione, incriminandoli con 23 capi di accusa – tra i quali omicidio colposo dei marinai, omicidio preterintenzionale e violazioni connesse del Clean Water Act. Il gran giurì ha pure accusato l’ex-direttore della BP di aver occultato informazioni al Congresso e di aver mentito a pubblici ufficiali”.
Se questa super multa servirà per alleviare almeno in parte le conseguenze economiche del disastro, un altro discorso va fatto per quelle ambientali. Uno studio di alcune università americane, pubblicato all’inizio dell’anno pone l’accento soprattutto sulla devastazione della fauna marina, dal plancton ai coralli fino ai vertebrati. Da un articolo di Oggiscienza.it si può comprendere la dimensione del danno: “dramma degli eventi accaduti a partire dal 20 aprile 2010 (qui un’ottima sintesi) non è affatto risolto, come era d’altronde prevedibile.
In realtà di questo dramma la comunità scientifica (ma non solo essa) ha ancora molto da comprendere, nonostante sia stata prodotta, da due anni a questa parte, una quantità notevole di documenti relativi all’accaduto. Per necessità di sintesi mi limiterò a tracciare alcune evidenze relative agli impatti ambientali di questo disastro.
Iniziamo con le certezze. Questo è uno tra i primi studi che inchiodano la BP quale responsabile della contaminazione del Golfo del Messico: un team di scienziati americani ha infatti usato gli idrocarburi policiclici aromatici come “impronte digitali” del grezzo fuoriuscito dal giacimento sottomarino detto Macondo per dimostrare che i composti tossici accumulati nello zooplancton pescato nel Golfo del Messico settentrionale sono effettivamente riconducibili all’incidente. A chi si stia chiedendo quali siano gli effetti diretti di tali contaminanti, nel limite dell’incertezza del caso, posso segnalare la ricerca che suggerisce come le comunità planctivore si siano dimostrate resilienti all’accaduto anche in relazione al fatto che gli effetti negativi diretti, dovuti all’esposizione al grezzo, sono stati compensati da una diminuzione della predazione.
Meno rasserenante è lo studio che individua nel grezzo uscito dal pozzo Macondo il colpevole della devastazione della comunità corallina d’altura del Golfo del Messico, situata a 7 km a sud-ovest dal pozzo, ora interamente coperta da uno strato di muco, «un cimitero di coralli» la definisce Erik Cordes, biologo alla Temple University. Tipicamente i coralli di acque profonde non vengono interessati dalla fuoriuscita di petrolio ma in questo caso la profondità e la temperatura coinvolte durante l’incidente hanno creato plum di particelle di grezzo che si muovevano a grandi profondità , causando danni senza precedenti. Danni, sia detto, che non riguardano solo questi importanti habitat delle acque profonde ma tutta la rete trofica che essi supportano”.
E ancora: “Nella regione della fuoriuscita sono state trovate gran parte delle specie esaminate e più della metà delle specie di pesci endemiche. Inoltre petrolio superficiale è stato rilevato nel 100% delle zone di gli avvistamentoi settentrionali dello squalo balena, nel 32,8% delle zone di deposizione di uova del tonno rosso in zona di deposizione delle uova e nel 38% delle aree di sviluppo larvale del marlin blu, tanto per dirne qualcuna. Non esagererei con l’ottimismo quindi.
A riprova di ciò, dopo l’incidente è stata già riscontrata una mortalità esponenziale in altri vertebrati, in particolare negli uccelli ma anche nelle tartarughe e nei mammiferi marini. A tal proposito un rapporto, commissionato dalla NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration), ha evidenziato come anche i sopravvissuti non se la passano così bene: in molti delfini residenti a Barataria Bay (Louisiana), area vicina al luogo del disastro petrolifero, sono state riscontrate malattie polmonari e del fegato, oltre che anemia, dimagrimenti consistenti e bassi livelli di un ormone che aiuta i mammiferi di affrontare lo stress così come regolamentare il loro metabolismo e sistema immunitario. Lo studio era stato deciso a seguito di un anormale spiaggiamento di tursiopi: solo nel 2010 sono stati registrati 139 spiaggiamenti (48 prima dell’incidente) rispetto ad una media di 20 negli anni 2002-2009”.
Insomma siamo ancora molto lontani – se mai si arriverà – a un riequilibrio naturale di un habitat delicatissimo: comunque, per una volta, è prevalso il principio del “chi inquina paga”. [PGC]
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