Interessi e disinteressi della burocrazia

by Sergio Segio | 24 Novembre 2012 7:41

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Selezionare personale elettivo che curi l’interesse generale, anziché interessi di parte, quando non personali, è in democrazia sempre stato una missione difficile. L’aveva denunciato in partenza un conservatore a tutto tondo come Gaetano Mosca, per il quale gli elettori non premiano i più dabbene e i più capaci, ma i più pronti a assecondarli. Purtroppo i fatti dimostrano come avesse ragione. Per un po’ i partiti hanno controllato la selezione del personale elettivo e moralizzato la vita pubblica, riordinando e disciplinando anche la sfera degli interessi. Usciti però di scena i partiti tradizionali, il particolarismo e il deficit di moralità  della politica elettiva si sono aggravati non poco. 
Cosa diverrà  la democrazia rappresentativa senza partiti organizzati ancora non lo sappiamo. L’esempio americano è poco rassicurante. Il problema è che nel frattempo è venuto meno pure un altro prezioso strumento di autodifesa dei regimi democratici, ossia la possibilità  di bilanciare il particolarismo congenito delle autorità  elettive con l’universalismo di quelle amministrativo-burocratiche. Per Joseph A. Schumpeter era questo un correttivo prezioso: se i politici sono inevitabilmente portavoce d’interessi particolari, privati e personali, serve chi presidi l’interesse generale. 
Che l’interesse generale sia generale davvero è molto dubbio. Ma, se non altro, è un interesse alternativo a quelli coltivati dalla parti politiche. Come ha sottolineato Pierre Bourdieu nelle sue lezioni sullo Stato, quest’ultimo è sorto come potere pubblico impersonale opposto ai poteri privati, affidato a un personale il cui interesse particolare e professionale è l’universale e il disinteresse, e che è educato e selezionato sulla base di criteri universali certificati, quali merito e competenza. 
Una cosa, come sempre, sono i modelli astratti, un’altra il mondo reale. La polemica contro la burocrazia italiana, e contro la sua sottomissione alla politica elettiva, e in special modo alle forze politiche di governo, è stata sempre vivacissima e tutt’altro che infondata. Ma se i difetti della pubblica amministrazione nazionale sono antichi, gravi e risaputi, la conduzione delle polemica, come sempre capita, è stata in larga misura dettata da finalità  politiche. 
È realistico supporre che alcuni segmenti della pubblica amministrazione fossero sottomessi alla politica e che altri non lo fossero. Nella storia d’Italia si annoverano burocrazie d’ogni sorta. Alcune di bassa lega, altre d’alto rango: valga per tutti la filiera nittiana per buona parte del ‘900 mossasi a metà  strada tra burocrazia e banca pubblica. Talora invise alla politica, che le invadeva, ma che era pure dipendente dai loro servigi, talaltra invise invece al mondo delle imprese private, non tanto per la loro inefficienza, ma per i vincoli che ponevano ad esso. 
Fatto sta che a lungo andare, invece di curarne i difetti, la politica ha preferito disperdere e mortificare le burocrazie pubbliche introducendo un insieme d’innovazioni normative e organizzative, all’insegna del New Public Management. Il quale nella sua versione italica, col solito provincialismo, è stato reintitolato spoil-system – quasi che lo spoil-system sia una bella cosa – e che si sta rivelando un terribile disastro. 
C’è ragione di pensare che l’invadenza partitica sia ulteriormente cresciuta, e sia divenuta addirittura sottomissione. Istituendo un’impropria equivalenza tra inefficienza e settore pubblico, la cosiddetta seconda repubblica, con la pretesa di trasporre al settore pubblico i criteri di conduzione del settore privato, ha compresso e umiliato le pubbliche amministrazioni. Privando le dirigenze elettive del contrappeso auspicato da Schumpeter. Se non che, in qualche modo, non necessariamente salutare, tale contrappeso si sta forse ricostituendo per suo conto. 
Esemplare è la partita di potere giocatasi intorno alla carica di governatore della Banca d’Italia. Non è passato molto tempo dacché il governatore Fazio concepì addirittura il disegno di ridisegnare la mappa del potere economico nazionale, salvo sbagliare alcune mosse tanto clamorosamente da costringere la politica a defenestrarlo. Istituendo il mandato a tempo, la politica sperava di rendere più malleabile il suo successore. Ma, avendo un problema di credibilità  nazionale e internazionale, il governo dovette scegliere una figura di alto profilo professionale come Draghi, che ha ricostruito l’autorevolezza di Bankitalia a confronto con le palesi manchevolezze della politica e dell’esecutivo. L’ha ricostruita al punto che il governatore, di cui l’esecutivo intendeva liberarsi inviandolo a Francoforte, è riuscito a imporre nientemeno che il commissariamento della politica che l’aveva designato. Tale è la costituzione di un «governo tecnico», che, oltre ad essere farcito di grands commis pubblici, opera in inquietante sincronia con la nuova possente e onnipervasiva metaburocrazia continentale, essa sì saldamente immunizzata dai capricci della politica convenzionale. 
Quella tra le pubbliche amministrazioni e la politica è perciò una contesa tutt’altro che esaurita. Anche perché la politica non può far a meno di talune competenze e professionalità , destinate a sopravvivere all’alternarsi delle maggioranze politiche. Il rischio che nelle attuali condizioni si corre è però che si costituiscano nuovi potentati burocratici pronti a far concorrenza con la politica elettiva senza le regole che limitavano le burocrazie convenzionali. Ma non è detto. Non è neanche escluso che le idee di pubblico, e di Stato, siano presto o tardi riabilitate e il dilettantesco e demagogico discorso che circola sui beni comuni potrebbe finanche essere il timido annuncio di un cambiamento del clima d’opinione, a sua volta premessa di un auspicabile cambiamento di orientamenti politici. 
La pubblica amministrazione è un segmento di personale dirigente – e un contrappeso – che il regime democratico farebbe bene – nelle forme appropriate – a richiamare in servizio

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