Ilva. Nazionalizzare non è un’eresia
La chiusura dell’Ilva mette in ginocchio un’intera città ; ed un territorio ben più vasto rischia di essere impoverito per lunghi anni e di veder minata la propria coesione sociale. Non solo la già gravissima perdita di cinquemila posti di lavoro diretti, ma anche la scomparsa di tutti i servizi connessi dalla logistica alla manutenzione, la probabile crisi dell’attività portuale di Taranto, una drastica riduzione della domanda e dei consumi delle famiglie con conseguente contrazione dell’attività commerciale.
Soprattutto la chiusura dell’Ilva significa un colpo durissimo all’intera industria nazionale. Nei fatti significa un effetto domino che rischia di azzerare i tre quarti della siderurgia italiana e dell’indotto, con pesanti ripercussioni sugli approvvigionamenti e sull’industria manifatturiera; una probabile lievitazione dei prezzi dell’acciaio per le nostre imprese, in una situazione di tensione già grave sui mercati internazionali delle materie prime.
Significa un costo immediato tra gli 8 e 10 miliardi per il Paese, con un probabile impatto occupazionale che nel medio periodo può comportare una perdita di 30-40.000 addetti. Inoltre avrà un effetto pesantemente negativo nelle partite correnti, sulla bilancia commerciale; sia per la riduzione delle esportazioni, sia per l’aumento delle importazioni in sostituzione della mancata produzione degli stabilimenti.
L’Ilva di Taranto è il secondo impianto siderurgico del continente e la siderurgia non è certo un settore in crisi: può avere certamente oscillazioni, ma rimane un settore strategico fondamentale per lo sviluppo in un mercato internazionale che, seppur rallentato, continua a crescere. Non si può permettere che il combinato disposto di una magistratura eccessivamente rigida, di una proprietà irresponsabile che opera solo attraverso ritorsioni, e dell’inazione governativa producano un disastro di queste proporzioni.
La sensazione è che vi sia una invisibile barriera ideologica all’intervento del governo, che impedisce di fare la cosa giusta. Too big to fail si direbbe con il pragmatismo tipico dei Paesi anglosassoni. Obama si è preso le quote del fallimento Chrysler, piuttosto che chiudere un’azienda manifatturiera di quel peso, trovando poi un partner industriale per la ristrutturazione. Cameron ed Osborne, di fronte al default inevitabile di Bank of Scotland, l’hanno di fatto nazionalizzata e ristrutturata, rimandando a tempi migliori la collocazione delle quote azionarie.
Poiché tutti continuano a ripetere che non possiamo essere messi di fronte all’alternativa tra salute e lavoro, in presenza di una tragedia sistemica di queste proporzioni, allora si facciano scelte giuste anche se non convenzionali. Si trovino le forme opportune, ma lo Stato proceda immediatamente alla bonifica coatta dell’Ilva, mantenendone in funzione gli impianti e l’attività , operando uno scambio tra i costi della bonifica e le quote azionarie di proprietà , commissariandone la gestione ed avviando un programma di sviluppo e riqualificazione produttiva.
Alla fine, probabilmente, poiché il valore della bonifica e dei costi connessi sarà tale da lasciare in mano allo Stato la maggioranza della proprietà , allora si procederà a trovare un partner industriale serio, in grado di rilanciare ulteriormente l’Ilva sul mercato internazionale, nel rispetto delle persone, del territorio, dell’Italia e degli italiani. Certo, questa strada, così come altre possibili, possono somigliare a una nazionalizzazione temporanea ma sono necessarie. Le scelte coraggiose e pragmatiche pagano in termini di risultati economici,ambientali e sociali; le scelte difensive, ideologiche e pavide portano solo all’agonia e al declino della nostra industria nazionale.
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