Ilva, altri arresti. L’azienda ferma l’impianto
TARANTO — Tangenti e complicità eccellenti per tacere sull’inquinamento dell’Ilva, addomesticare i controlli, aggiustare la normativa. Un’associazione per delinquere (finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze e delle acque e all’omissione dolosa delle cautele sul lavoro) che ha potuto contare, secondo i pm, su una fitta rete di politici pd e pdl e sulla «regia occulta» del presidente della Regione, Nichi Vendola. È questa l’accusa che ieri ha portato a 7 nuovi ordini di custodia cautelare: inclusi quelli per il patron dell’acciaieria, Emilio Riva (86 anni, già ai domiciliari dal 26 luglio) e per il figlio Fabio, vicepresidente Ilva group, irreperibile. Raggiunti da avvisi di garanzia anche il presidente Ilva, Bruno Ferrante (per concorso in disastro ambientale: per i pm l’Ilva ha continuato a inquinare anche al suo arrivo) e il direttore tecnico dello stabilimento, Adolfo Buffo, mentre scattava il sequestro di tonnellate di prodotti di acciaio commercializzati dall’Ilva durante il periodo di stop ordinato dal tribunale e quindi provento di attività illecite, per i pm. Drammatica la reazione dell’azienda che ha annunciato ai sindacati l’immediata chiusura dell’area a freddo di Taranto, con le ferie forzate per circa 5 mila lavoratori. E la conseguente sospensione dell’attività in tutti gli impianti siderurgici del gruppo, per impossibilità di commercializzare i prodotti: Genova, Novi Ligure, Racconigi, Marghera e Patrica.
«Nessuna ritorsione. Stupefacente pensarlo. Come si fa a tenere aperto uno stabilimento che non può produrre?», replicava ieri l’avvocato dell’Ilva, Marco De Luca, alle polemiche per la chiusura. L’Ilva, come persona giuridica, «è estranea alle accuse» precisa una nota del gruppo. «Assolutamente inconsistenti» definisce le accuse anche il presidente Ferrante. «È stato nominato assieme ai custodi giudiziari e non ha mai avuto neanche la facoltà di poter commettere illeciti. Buffo è arrivato ancora dopo», fa notare la difesa.
«Il diritto alla salute viene prima di ogni cosa. Di fronte a quello tutti devono cedere il passo, anche il diritto al lavoro» ha ricordato il procuratore di Taranto, Franco Sebastio. Si chiama proprio «Ambiente svenduto» l’indagine che scuote gli ambienti politici. 10 mila euro è la mazzetta che, secondo l’accusa, Lorenzo Liberti, stimato professore, prese, per aggiustare una perizia per la Procura, sull’impatto della diossina, da Girolamo Archinà , ex responsabile per i rapporti istituzionali dell’Ilva, entrambi in arresto. Ma l’inchiesta va oltre. Ricostruisce la fitta rete di relazioni che avrebbe aiutato l’azienda ad affossare i controlli. Dalle oltre 600 pagine delle carte spuntano nomi eccellenti che l’Ilva avrebbe cercato di attirare nella rete. Dal presidente della commissione ambiente, Gaetano Pecorella, al capogruppo pd in commissione ambiente Della Seta, all’onorevole Ludovico Vico e al consigliere regionale Donato Pentassuglia, anch’essi pd, allo scomparso onorevole Pietro Franzoso (Pdl) via via fino all’ex ministro dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo. In arresto, insieme all’ex direttore dell’Ilva Luigi Capogrosso e a Carmelo Delli Santi, rappresentante della Promed Engineering, anche l’ex assessore all’Ambiente della Provincia di Taranto, Michele Conserva (che si era dimesso lo scorso settembre). C’è persino una lettera, forse mai spedita, destinata al leader pd Pier Luigi Bersani. Ma anche giornalisti e persino un ispettore della Digos. E a far da regista, secondo i pm, era Nichi Vendola. «Mai fatto pressioni — replica il governatore della Puglia — ho solo chiesto di essere inflessibili per difendere l’ambiente».
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