Il voto tedesco tra Berna e Bruxelles
Oggi, infatti, in Germania si deciderà , con il voto del Bundesrat, la camera dei Là¤nder tedeschi, la ratifica della convenzione fiscale sul modello denominato non a caso Rubik, come il famoso cubo rompicapo in voga negli anni ’80.
Le previsioni sono tutt’altro che rosee per il governo della Cdu-Fdp che nella camera alta non ha la maggioranza e trova un netto rifiuto da parte dell’opposizione socialdemocratica e verde. L’accordo deve essere ratificato entro il 14 dicembre, pena l’annullamento. La sua bocciatura, data ormai quasi per scontata malgrado i tentativi del ministro delle Finanze Wolfgang Schà¤uble che promette maggiori risorse ai Là¤nder più reticenti, potrebbe compromettere i tavoli già aperti tra Berna e altri Paesi europei – a cominciare dalla trattativa con l’Italia che nelle aspettative delle banche elvetiche dovrebbe concludersi entro la fine dell’anno – e quelli ancora da aprire, prima di tutto con Parigi.
Vista da Berna, la prospettiva è inquietante. Entrando negli uffici della Segreteria di stato per le questioni finanziarie internazionali (Sfi) o in quelli dell’Associazione svizzera dei banchieri (Asb), o superando la soglia marmorea della sede centrale della Banca nazionale svizzera, a Zurigo, l’ansia di convincere il governo italiano – e poi, soprattutto, il parlamento che dovrà ratificare – è quasi palpabile. «Noi non forniamo dati ma entrate fiscali: i soldi entreranno nella casse italiane senza bisogno di mobilitare eserciti di finanzieri», sottolinea Jakob Schaad, vicepresidente dell’Asb. Gli accordi di cui si discute ormai con cadenza settimanale tra i tecnici dei ministeri italiano e svizzero sono due: uno fiscale e uno sulla doppia imposizione dei lavoratori frontalieri (rinnovo di quello esistente dal 1974). È una corsa contro il tempo, «per evitare che dopo le elezioni il nuovo parlamento italiano possa non ratificare», spiega Mario Tuor, portavoce dell’Sfi.
La convenzione fiscale prevede intanto l’imposizione di una multa forfettaria unica per regolarizzare il passato dei depositi italiani in Svizzera, con un’aliquota ancora da stabilire. I correntisti potranno decidere se pagare, chiudere il conto o autodenunciarsi alle autorità italiane. Per il futuro, invece, le banche svizzere si impegnano ad imporre alla fonte una tassazione pari all’aliquota fiscale italiana (intorno al 20%), e ad accettare altro denaro solo se fiscalizzato. In cambio, la Svizzera evita l’automatismo nello scambio di informazioni, preservando così l’anonimato dei clienti (salvo gravi reati fiscali ipotizzati dalla magistratura), e ottiene lo stop all’acquisto dei cd contenenti i dati trafugati degli evasori, come è avvenuto anche recentemente in Germania. Ma soprattutto conquista lo stralcio dalle black list italiane, indispensabile per favorire il mercato e lo sviluppo industriale transfrontaliero.
Le trattative con l’Italia si sono sbloccate con Monti e il 9 maggio scorso, dopo che la Commissione europea aveva dato il via libera agli accordi Rubik, c’è stata la prima conferenza stampa comune dei dipartimenti finanziari dei due Paesi. Prima, né Tremonti né Berlusconi avevano alcun interesse ad abbandonare la via degli scudi fiscali (di cui non a caso in questi giorni si ricomincia a parlare, in casa Pdl). Su questo, a Berna, sono tutti d’accordo: governo, parlamento e banche svizzere attribuiscono molto chiaramente all’esecutivo di centrodestra italiano la responsabilità dell’empasse. A oggi, la rete bancaria elvetica ha già speso circa 500 milioni di franchi per organizzare un sistema di attuazione delle convenzioni già stipulate con Germania, Austria e Gran Bretagna (queste ultime due entreranno in vigore il primo gennaio 2013), cosicché il costo aggiuntivo per operare come esattore d’imposte straniero anche per l’Italia non sarà molto rilevante. Al contrario, di strappare una stima sull’ammontare dei fondi italiani nei cassieri svizzeri non se ne parla nemmeno. L’unica cifra orientativa viene fuori durante l’incontro a Berna con l’ambasciatore Oscar Knapp, responsabile divisione mercati dell’Sfi: nelle banche svizzere ci sono circa 650 miliardi di franchi appartenenti a clienti privati (non istituzionali) stranieri di tutto il mondo. Ma va tenuto presente che l’Italia è il secondo partner commerciale svizzero e tra i Paesi più importanti per il sistema finanziario elvetico. Dunque, una buona fetta di quei 650 miliardi è possibile che sia di provenienza italiana. Quanti di questi soldi però prenderanno la strada verso altri paradisi fiscali in vista dell’accordo, è tutto da verificare. Secondo l’avvocato Paolo Bernasconi, uno dei massimi esperti della politica finanziaria e della piazza svizzera, il Paese dei cantoni non ha praticamente concorrenti dal punto di vista dell’affidabilità , della sicurezza e della stabilità anche monetaria. Isole Cayman, Panama, Singapore, Cipro, Malta, Tanzania, non possono garantire altrettanta salvaguardia dei depositi né lo standard qualitativo svizzero. Inoltre, dal giugno 2013 scatteranno a Singapore le nuove norme di adeguamento agli standard Ocse sui «gravi reati fiscali». Non solo: «dal primo gennaio 2013 entrerà in vigore scaglionata nel tempo la legge Usa denominata Facta sulla conformità fiscale dei conti bancari stranieri – spiega ancora il professore Bernasconi – e nel 2014 ci sarà anche la revisione dell’accordo Berna/Bruxelles sull’euroritenuta, oltre all’entrata in vigore delle norme svizzere di applicazione delle raccomandazioni del Gafi sul riciclaggio». Insomma, un vero giro di vite. Ecco perché la Svizzera ha molta fretta di concludere gli accordi bilaterali con i Paesi europei, in modo da poter mantenere almeno in parte il segreto bancario e non perdere i clienti stranieri.
Può però succedere che i fondi neri migrino al momento giusto verso le filiali delle banche elvetiche aperte negli altri paradisi fiscali. Quelle filiali, infatti, sono esenti dal rispetto delle convenzioni sull’imposta alla fonte. Ma se dopo la firma dell’accordo con la Germania, «solo lo 0,4% dei clienti tedeschi ha chiuso il conto svizzero», come assicura Mario Tuor, con l’Italia la musica cambia: «Più alta sarà l’aliquota imposta per la regolarizzazione del passato, più alto sarà il rischio di fuga dei depositi italiani», spiega Jakob Schaad. L’Asb è convinta infatti che a causa dei nostri precedenti scudi fiscali – 2001, 2003, 2009, 2010, con aliquote dal 2% al 7% – il Belpaese non può stipulare un accordo simile a quello sottoscritto da Berlino o da Londra, con aliquote tra il 21 e il 40%. Scapperebbero tutti. «Bisognerà tenersi – suggeriscono i banchieri svizzeri – giusto un po’ al di sopra del tasso per i capitali scudati».
Esattamente l’ipotesi più sciagurata, secondo le associazioni dei consumatori italiani. Dopo tanti scudi fiscali «varati a misura di elusori e riciclatori», proprio non si sente ora il bisogno di «studiare norme ad hoc per non disturbare troppo banchieri e grandi evasori», dicono. C’è da scommettere che perfino a Zurigo più di qualcuno non comprenderebbe perché, dopo tanta condivisione di rigore teutonico, anche su questo aspetto – almeno su questo – l’Italia non possa seguire l’esempio tedesco
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