Il segnale che arriva dalle regioni rosse

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Tre milioni. Come alle precedenti Primarie del 2009, ma un po’ meno del 2007. Nonostante riguardassero solo il Pd, mentre nel 2005 la candidatura di Prodi aveva mobilitato oltre 4 milioni di elettori di centrosinistra. Ma erano altri tempi. Perché oggi la fiducia nei partiti, nei politici e nel Parlamento è ai minimi storici. Eppure ci sono ancora 3 milioni di persone e oltre disposte a uscire di casa, la domenica, per recarsi ai seggi, dopo essersi iscritte alle liste. Facendo la fila, anche due volte. (Le complicazioni burocratiche hanno influito anch’esse, sulla partecipazione.) E ci sono decine di migliaia di volontari ai seggi. Il sabato, la domenica magari anche il lunedì. È una buona notizia. Per nulla scontata. Per la nostra democrazia, prima ancora che per il Pd. Il quale, peraltro, ne ha beneficiato in modo evidente. Non solo perché il numero di cittadini che si è recato alle urne è stato di 3,6 volte superiore al numero di iscritti al Pd. (Come ha annotato l’Istituto Cattaneo nel suo Report.) Ma anche perché, negli ultimi mesi, il Pd, nelle stime elettorali, è risalito di quasi 10 punti percentuali. Oggi è oltre il 32% (secondo Ipsos). Per questo il ballottaggio fa bene al Pd. Perché allunga i tempi della mobilitazione, ma anche dell’attenzione mediatica. Che alimentano il consenso. Ragionando sui risultati, mi pare emergano alcuni aspetti, (solo) in parte sottolineati dalle analisi proposte “a caldo”.
1. Il ballottaggio rivela una competizione di leadership reale, dentro il Pd. Fino ad oggi le Primarie non avevano mai avuto storia. Oggi appaiono aperte. E anche questo spiega l’interesse e la partecipazione che le hanno caratterizzate. Certo, Bersani è il favorito. Ma non il vincitore annunciato. Perché Renzi ha conseguito un risultato ragguardevole. Circa il 36%: 9 punti meno di Bersani. Tanto, ma non troppo. Nelle competizioni a doppio turno, infatti, ogni turno fa storia a sé. Ed è improprio calcolare voti “esterni” ai due candidati del ballottaggio in base alle indicazioni dei leader. Così, i voti di Vendola non sono, automaticamente, trasferibili a Bersani. Molti suoi elettori del primo turno, come emerge dai messaggi in rete, potrebbero, infatti, orientarsi verso Renzi, perché esprime meglio la domanda di “rottura” con il passato. Con le burocrazie di partito.
2. Peraltro, se ripercorriamo il risultato dei due principali candidati su base territoriale, emerge una geografia significativa. E non del tutto prevedibile. Bersani prevale in 17 regioni su 20. Nel Nord e soprattutto nel Mezzogiorno. In Calabria, Sicilia, Sardegna e Campania, Basilicata. Dove supera la maggioranza assoluta. Renzi, invece, avvicina Bersani nel Nord, soprattutto in Piemonte e nel Veneto. E, paradossalmente, si afferma nelle Regioni Rosse – esclusa l’Emilia Romagna. In Toscana, ma anche in Umbria e Marche. Proprio lui, sospettato di “berlusconismo”. Bersani, presumibilmente, cumula e associa due modelli di radicamento tradizionali nel Pd. A) L’elettorato orientato dagli apparati e dall’organizzazione sul territorio. B) L’elettorato post-comunista, passato attraverso i Ds. Renzi, invece, si afferma nelle (ex)zone di forza della Margherita, nel Nord (Cuneo, Asti, la pedemontana veneta). E attira componenti di elettori critici verso la classe politica e verso i gruppi dirigenti del Pd. Soprattutto dove sono al governo (le zone “rosse”). Come mostrano i dati di alcuni sondaggi.
3. L’alternativa fra i due candidati, dunque, riflette la distinzione vecchio/nuovo (agitata da Renzi, attraverso lo slogan della “rottamazione”). Rispecchia, inoltre, la frattura destra/sinistra, evocata da Bersani, Vendola e Camusso. Per marcare l’estraneità  di Renzi rispetto alla tradizione del centrosinistra. Ma lo schieramento a favore o contro i due candidati è dettato anche da altre componenti, legate alla personalizzazione e allo stile di comunicazione che caratterizzano le Primarie. Ciò rende interessante e aperto il voto di domenica. Che potrebbe essere influenzato dal confronto faccia-a-faccia di mercoledì prossimo sulla prima rete Rai.
4. Anche per questo ritengo che le Primarie, fino al ballottaggio, imprimano all’opinione pubblica e alla stessa logica istituzionale una dinamica presidenzialista. Secondo il modello americano oppure quello francese (per quanto diversi).
Comunque vada il ballottaggio, credo che il Pd debba guardarsi, in seguito, da due rischi. a) Il calo della passione e della mobilitazione dopo mesi di partecipazione, al centro dell’attenzione pubblica e mediatica. Per questo deve “normalizzare” e interiorizzare il modello sperimentato in questi mesi. E se la vita politica non può trasformarsi in un’eterna primaria, non deve neppure ridursi alla routine dei discorsi e dei negoziati nel chiuso delle sedi di partito, dei gruppi dirigenti, dei soliti noti. b) Nel Pd occorre fare attenzione a non trasformare la competizione fra i “duellanti” in antagonismo. Renzi e Bersani e, soprattutto, i mondi che si sono aggregati e mobilitati intorno a loro: non debbono diventare alternativi. Ed esclusivi. C’è il rischio, altrimenti, che si elidano a vicenda. E che, invece di favorire la partecipazione larga e paziente di questo periodo, producano disincanto e frammentazione. Divisione.
In fondo, il Pdl, o ciò che ne resta, è lì. Alla finestra. Sospeso tra voglia e paura delle Primarie. Perché ancora oggi è un partito personale e mediale. Senza società  e senza territorio. Il Pd e il centrosinistra, al contrario, sono nati e cresciuti nella società  e nel territorio. Ma se ne sono dimenticati. Ora che sono tornati (nella società  e nel territorio), ebbene, ci restino.


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