Il Quirinale e i due possibili scenari

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Election day, tensioni nella maggioranza, elezioni regionali, voto anticipato. Dal Quirinale si segue tutto da vicino con preoccupazione, talvolta con apprensione per le mosse dell’uno o dell’altro leader politico, ma con una stella polare a cui guardare anche in questa vicenda, come si è fatto per tutto il settennato: la giurisprudenza costituzionale. Ed è ciò di cui ha parlato Giorgio Napolitano con Mario Monti a tarda sera. Il dossier è complesso, pieno di intrecci istituzionali, ma il Capo dello Stato lo ha da giorni davanti a sé. Sull’election day c’è la consapevolezza che sarebbe improprio accorpare due voti, quello regionale e quello politico: si tratta di consultazioni che hanno profili molto diversi tra loro, anche se c’è la pressione del centrodestra che, dopo l’annuncio del ministro Cancellieri, vorrebbe far coincidere le due elezioni il 10 e l’11 febbraio.
Il presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, ha fatto ciò che era in suo potere perché spetta a lei sciogliere il consiglio regionale, ma poi è arrivata la sentenza del Tar che impone di andare al voto il più presto possibile (entro 90 giorni dal 28 settembre, quando è decaduta la giunta) e oggi stesso deciderà  il Consiglio di Stato, a cui ha fatto ricorso la Polverini. Se dovesse confermare la sentenza del Tar il percorso sarebbe quello già  annunciato: voto di Lazio, Lombardia e Molise, regioni che sono state sciolte per motivi diversi (le prime due per gli scandali sui fondi ai partiti e le inchieste giudiziarie) il 10 e 11 febbraio, mentre le politiche si terrebbero il 7 aprile. Ed è questo il percorso «naturale» a cui guarda il Colle.
Di conseguenza, le attese sul Consiglio dei ministri di oggi su una decisione favorevole all’election day sarebbero quanto meno premature. Perché, appunto, ci sono da rispettare le tappe dettate dalla giurisprudenza costituzionale. Tanto che l’annuncio del ministro dell’Interno sarebbe apparso troppo precipitoso. E anche la sottolineatura sulla spesa «minore» di 50 milioni invece dei 100 già  ipotizzati: bisogna stare attenti a dire che si fanno le elezioni per risparmiare, si rischia di delegittimare questo fondamentale strumento politico. L’idea è che si sarebbe potuto aspettare almeno il consiglio di Stato mentre le forze politiche della maggioranza (centrodestra come centrosinistra) si sono scatenate in dichiarazioni apparse come un misto di ignoranza costituzionale e di calcoli utilitaristici.
Ma c’è un’altra considerazione di fondo: perché imprimere un’accelerazione verso il voto politico anticipato se non ci sono chiari segnali che vanno in questo senso? Il Colle osserva che il governo continua ad incassare la fiducia in Parlamento senza problemi e da qui a Natale ci sono appuntamenti fondamentali: l’approvazione della legge di stabilità , il voto sul bilancio, senza il quale si andrebbe all’esercizio provvisorio, l’importante consiglio europeo di dicembre. Certo, dopo, il Pd, il Pdl e l’Udc potrebbero considerare chiusa la partita del governo di comune accordo. Ma al Quirinale non si prenderebbe in considerazione l’ipotesi se non con precisi atti politici e non di fronte a mera fibrillazione partitica. Per ora si è solo studiato attentamente ciò che fece Francesco Cossiga vent’anni fa: le dimissioni anticipate perché di fronte al complicatissimo scenario che usciva da Tangentopoli non voleva essere lui a designare il futuro presidente del Consiglio.
Ed è questa l’altra stella polare che orienta il Quirinale, in questo caso di tipo soggettivo: il Presidente — e lo ha detto in numerose occasioni — non vuole assumersi l’onere di determinare in qualche modo il futuro assetto politico coerentemente al ruolo di garante della Costituzione. Una possibilità  di giungere a questo quadro c’è stata in passato, tanto che lo stesso Napolitano ne parlò il 5 luglio scorso con il presidente del Senato Renato Schifani. Ma allora, in un momento di crisi acuta fra i tre partiti della maggioranza, la scadenza naturale della legislatura era lontana. Percorso ipotizzato: scioglimento del Parlamento a settembre, voto il 10 novembre e incarico al nuovo presidente del Consiglio da parte di un Capo dello Stato nel pieno delle sue funzioni.
Ora è troppo tardi. Ecco perché al momento, in assenza di atti politici precisi e concordati, di fronte ai quali il Presidente si dimetterebbe anticipatamente, il Colle vede davanti a sé la scadenza naturale della legislatura: Parlamento sciolto il 16 febbraio, politiche il 7 aprile, elezione dei presidenti delle due Camere il 25 mentre il 15 dello stesso mese viene convocato il Parlamento per eleggere il nuovo Presidente.
E se davvero i partiti che sostengono la maggioranza trovassero un accordo, anche con Monti, per provocare la crisi? In quel caso, si fa notare, sarebbe comunque arduo votare nella prima metà  di febbraio. Non si è mai fatto per timori meteorologici, da sempre bipartisan, che determinano un alto rischio di assenteismo. Basta pensare che proprio il 10 febbraio scorso a Roma nevicava. E poi ciò comporterebbe un inedito scioglimento anticipato del Parlamento alla vigilia di Natale. Le possibilità  per le urne potrebbero aprirsi invece ad inizio marzo (il 3 e il 4).
C’è poi un altro, non indifferente scoglio da superare per andare al voto: la riforma elettorale. Su questo argomento da sempre il Quirinale ha posto condizioni e a maggior ragione ora che la trattativa tra i partiti per cambiare il Porcellum è in alto mare. Il Colle ha già  pronta una nota scritta in cui si ricordano i motivi per cui una nuova legge appare indispensabile prima di andare al voto. Ed è questa l’altra difficoltà  che incombe prima del voto, vero e proprio macigno politico e istituzionale che preoccupa il Quirinale e di cui si è parlato con Mario Monti.


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