Il mio romanzo in forma di catalogo

by Sergio Segio | 4 Novembre 2012 8:44

Loading

Cominciai a collezionarli dalla metà  degli anni Novanta in poi per creare l’universo degli oggetti del museo e del romanzo. Alcuni non li ho potuti esporre nel museo sia perché non sono riuscito a spostare la storia su di essi, sia perché non erano adatti all’atmosfera del luogo. All’inizio, quando qualcuno mi domandava che cosa avrei fatto con gli oggetti che collezionavo, non ero in grado di rispondere. «Costruirò un museo e il suo catalogo sarà  un romanzo» sarebbe stata una risposta troppo pretenziosa. Così, mi limitavo a dire timidamente, come i collezionisti malinconici che ho descritto nel libro, che, per un qualche motivo, ero molto affezionato a quella tazza. Insomma, mi comportavo come se non sapessi che uso avrei fatto di quell’oggetto che tanto mi piaceva. Un’innocua stravaganza.
In un certo senso davvero non sapevo cosa ne avrei fatto. Sognavo in maniera insistente, quasi ossessiva, di costruire un museo e scrivere un romanzo, ma la stranezza, l’eccentricità  di questi sogni e la difficoltà  di realizzarli spaventava anche me. Ero consapevole del fatto che se avessi svelato i miei sogni ai miei famigliari, ai parenti e agli amici avrebbero cercato di dissuadermi a fin di bene: proprio come quando in gioventù decisi di diventare un romanziere, avrebbero pensato che avevo una rotella fuori posto, mi avrebbero detto di non spendere inutilmente le mie energie perché in Turchia (eravamo negli anni Novanta, dopotutto) nessuno sarebbe andato a visitare un museo e che non avevo altro denaro, se non quello che guadagnavo con i diritti d’autore. Forse avevano ragione su tutto, ma non riuscivo a smettere di pensare al romanzo e al museo; continuavo a comprare oggetti, che conservavo a casa mia e nel mio studio, con gioia e abbandono, senza raccontarlo a nessuno.
Quando non siamo obbligati a condividere i nostri sogni con gli altri e a convincerli del loro valore, la creatività  artistica e letteraria sublima in uno stato di euforia. Ho la sensazione che sia questo il motivo per cui molti degli scrittori e degli artisti che più ammiro sono vissuti in solitudine, non perché fossero irascibili e litigiosi. Ecco anche perché spesso le nuove idee emergono dalle periferie, più che dai centri letterari e artistici. Per poter cominciare a scrivere un romanzo in forma di catalogo commentato di museo, sulla base degli oggetti che avevo collezionato, dovevo decidere la sede della casa dei Keskin. Perché quella era la casa dove Kemal avrebbe fatto visita a Fà¼sun per anni e che, come avrei poi svelato nel romanzo, avrebbe in seguito trasformato in museo. Definire la sua posizione significava decidere la posizione del museo.
Nessuno avrebbe visitato un museo in un sobborgo o in un quartiere povero. Ma non potevo permettermi di comprare una casa grande e indipendente da trasformare in museo in uno di quei quartieri dove gli appassionati dei musei, gente colta, avrebbero potuto andare a soddisfare il proprio gusto culturale. E se anche avessi avuto denaro a sufficienza, avrei avuto il coraggio di spenderlo tutto per acquistare una casa che sognavo di trasformare in un museo in futuro? Credevo a tal punto nel museo da comprare un intero stabile per questo progetto? Dovevo convincere me stesso, prima di tutti, della serietà  dei miei sogni, e per fare questo dovevo comprare una casa per il museo. Con quello che guadagnavo a quei tempi dai diritti d’autore dei miei libri non avrei potuto acquistare una casa da trasformare in museo a Nisantasi, dove erano ambientati i miei romanzi e dove viveva Kemal e molti altri personaggi. […] Così cominciai a cercare una casa in vendita tra Cihangir e il Beyoglu, da viale Istiklà¢l fino a Tophane e alla torre di Galata. In tempo per l’inaugurazione del museo nella primavera del 2012 queste strade sarebbero diventate ricche; il turismo, l’arrivo delle catene di negozi internazionali e gli sforzi di rinnovamento le avrebbero ripulite, avrebbero dato loro una mano di vernice e un volto nuovo. Ma a metà  degli anni Novanta erano ancora povere, distrutte e abbandonate, come quando ero bambino. Alcune di queste erano lastricate come tutte le strade di Istanbul negli anni Cinquanta e Sessanta. Sulla collina che da Tophane si estende fino a Tà¼nel, vicino alla torre di Galata, c’erano ancora molti piccoli laboratori che producevano utensili per la casa e la cucina in plastica e alluminio. I suoni delle macchine e dei colpi di scalpello si riversavano nelle strade dalle cantine di edifici mezzi distrutti, retaggio dell’epoca ottomana, dove c’erano laboratori che producevano i palloni blu e rossi con cui giocavano i bambini nelle strade, e le vaschette di plastica per il bucato e le stoviglie che avevo visto a casa di Fà¼sun.
Scendendo da Galata a Tophane, i caffè e le strade abitate dai rom, da quelli che erano disoccupati dopo aver combattuto la guerra nell’Anatolia dell’Est, dai curdi e dai poveri immigrati africani, erano affollati e pieni di vita. In questa zona diedi un’occhiata anche agli appartamenti, non solo alle case singole. Pensai che anche un appartamento con un soffitto alto in cima a un’unica rampa di scale, dentro uno di quei vecchi condomini costruiti nei giorni del declino dell’impero ottomano, quando la via delle banche era la capitale finanziaria di tutto il Medio Oriente, avrebbe potuto essere
trasformato in museo. Negli anni Novanta, però, la mia collezione era ancora esigua e i miei sogni per il mio futuro museo non erano così ambiziosi. […] Nel 1999, sei mesi dopo il grande terremoto, acquistai una casa a cinquanta metri dal famoso bagno turco di à‡ukurcuma. Mi piaceva molto quest’edificio che vedevo tutti i giorni portando mia figlia a scuola, e venni a sapere che era in vendita tramite un intermediario a conoscenza della mia intenzione di comprare una casa. Il proprietario era un costruttore che aveva realizzato diversi progetti edili a Istanbul: aveva acquistato l’edificio all’asta dopo che i precedenti proprietari erano finiti in tribunale e, non sapendo con certezza che utilizzo ne avrebbe fatto, l’aveva trasformato in un dormitorio per i suoi operai. Mentre visitavo le stanze polverose e sudicie di questo edificio elegante ma in rovina, un operaio rimasto vittima di un incidente giaceva immobile su un letto, gli occhi puntati al soffitto. Il costruttore mi raccontò che un tempo l’edificio veniva dato in locazione dai proprietari, e che, come molti degli antichi palazzi greci della zona, era stato utilizzato come deposito o come casa per scapoli. Mi piaceva la sua scala a chiocciola in legno, il fatto che desse su due strade e che fosse piccolo, cosa di cui mi lamentai molto negli anni a venire, ma soprattutto ero felice perché avevo trovato un edificio elegante, degno di Fà¼sun. Sì, Fà¼sun doveva sicuramente aver vissuto lì: ne ero sicuro.
Traduzione Barbara La Rosa Salim Titolo originale: The Innocence of Objects
© 2012 All rights reserved First published in the english language in 2012 by Abrams, an imprint of ABRAMS All rights reserved in all countries by Harry N. Abrams, Inc © 2012 Giulio Einaudi editore Spa, Torino

Post Views: 183

Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2012/11/il-mio-romanzo-in-forma-di-catalogo/