Il maleficio dell’Aquila

by Sergio Segio | 18 Novembre 2012 8:44

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L’AQUILA. Gli abitanti della città  evitano il tour macabro. E nel centro storico entrano in caso di necessità La piazza che incornicia la chiesa delle Anime Sante, con la sua cupola del Valadier imbracata e le finestre impalate dal legno che ne ricalca la struttura architettonica, è spettrale ed esangue, sotto narcosi. Anche il sole di mezzogiorno sembra pallido. Batte sul selciato, risucchia le ombre e spara luce metafisica. Tre anni e mezzo dopo il catastrofico terremoto, qui, non accenna a rianimarsi nessun orologio dell’esistenza. Qualche passante cammina in lontananza, stringendo i pugni dentro le tasche della sua giacca a vento. Ai lati della piazza del Duomo, dove fino a pochi mesi fa si tenevano le assemblee cittadine, sono comparsi dei caratteristici bungalows, tipologia mercatino di montagna. Sono chiusi, d’altronde è l’ora del pranzo. Vendono chincaglierie e oggettistica varia, gadget per i turisti. Turisti? Sì, dicono gli aquilani, sono gli unici che ancora transitano per il centro storico. Vengono, passeggiano, guardano le lacerazioni nei palazzi, le ferite delle chiese, inquadrano le facciate dei monumenti nel cielo terso e scattano la foto-souvenir. Qualcuno, più sensibile, piange. Meno male, perché all’isola del Giglio, davanti la Costa Concordia affondata e alla sua pancia ancora piena di morti, mangiavano allegramente panini in improvvisati «picnic del disastro». Gli abitanti della città , invece, se possono, evitano il tour macabro. E in quel centro che non torna al pullulare vivace della sua quotidianità  accedono solo in caso di necessità . La farmacia all’angolo, superata la chiesa del suffragio, non c’è più, è stata trasportata in un container appena fuori la «zona rossa», quella che un tempo era vietata perché rischiosa e oggi lo è ugualmente – vietata – per una autocensura degli aquilani: è doloroso vedere che non è risorto proprio nulla dalle macerie. Un po’ di movimento c’è solo davanti al bar Nurzia, il primo che riaprì e divenne il simbolo di un possibile riscatto, poi trasformatosi in un’occasione perduta e successivamente in una disperazione tout court . «In Emilia hanno fatto bene a non accettare la protezione civile, hanno agito da soli… Per noi è stato possibile, ci hanno militarizzato sfruttando lo stato di shock ed ecco com’è andata…», racconta sconsolato Fernando. A lui e a sua moglie andò bene quella notte, ma suo fratello ha dovuto lasciare Sassa e andare a vivere in una new town. Ogni due o tre giorni va a innaffiare i gerani nella vecchia casa disabitata. Già , le new town: a Pianola ce n’è una con le casette a schiera tutte azzurrine, piazzate come nel Monopoli una appiccicata all’altra. Fanno venire in mente le periferie delle favole se mai esistessero e qualche scrittore le avesse rappresentate. Nel silenzio di quei «non-quartieri» si aggirano un’anziana signora trasportata su sedie a rotelle, una madre con carrozzina e un ragazzo in tuta da ginnastica. Se non si ha niente da fare, non conviene neanche vestirsi. Ma le strade che separano i due blocchi di edifici non sono anonime: vi risuonano nomi che inducono al sogno ipnotico, via Raffaello Sanzio, via Giorgio De Chirico… Dentro le case, però, piove, qualcosa nella struttura non ha retto, «si stanno aprendo come fossero di cartone». Più a valle, la new town è tutta bianca, candida. Di notte, quando si accendono le luci, «sembra di vedere i loculi del cimitero». Stordimento e Amarcord Torniamo indietro, sui nostri passi intorno alla piazza del Duomo. Come cicerone, per le vie deserte e assolate del corso principale dell’Aquila, c’è Giovanna, una professoressa di lettere in pensione. Anche lei pratica la strategia dell’«assenza» e preferisce stare alla larga da quei palazzi storici puntellati, con le orbite delle finestre vuote e nere, i vetri rotti, le macerie al loro interno ancora accatastate. A costringerla però a fare un salto al centro è il suo macellaio di fiducia. Lui è rimasto, cocciuto e solitario, in un vicolo in salita che incornicia la sagoma spezzata della chiesa di santa Maria Paganica, anch’essa, come le altre, imbracata e in attesa. Giovanna va, s’infila veloce nel negozio, fa i suoi acquisti e fugge via. Confessa che quando le capita di andare a Roma, come è successo in questi giorni per la mostra di Vermeer, all’inizio è stordita dal rumore e dal traffico, poi si rende conto che quel caos è normale in una città  viva e facendo il paragone, come per un risveglio da elettroshock, capisce che i suoi sensi sono straniati, che sono cambiati i suoi parametri percettivi e fatica a trovare la misura fra ciò che è ordinario e ciò che non lo è più. L’Aquila è come una bella addormentata senza principe. E i legni che puntellano portoni, finestre, soffitti, somigliano a scheletri a vista, rovesciamenti di pelle in una città  scorticata senza pietà . La tappa è d’obbligo davanti al bar Commercio, chiuso. Una selva di post-it di tutti i colori ne tappezzano l’ingresso. Strategia dell’assenza Amarcord L’Aquila si chiama quella scrittura di pensieri improvvisati. Una marea di foglietti attaccati alla vetrina del locale, un omaggio al luogo di tanti appuntamenti. «Post-it come si fa in casa, quando si vuole ricordare qualcosa da fare il giorno dopo, da tenere a mente, qualcosa di importante. Per noi l’importante è la ricostruzione…», si legge. Ormai, però, è tardi. Chi è emigrato, in tre anni e mezzo si è rifatto una vita altrove, difficile che proceda a ritroso, che abbia la tenacia di ricominciare dopo tutto quel tempo impiegato a cercare di dimenticare l’esilio. Psicologicamente, sarebbe un ulteriore sradicamento. Giovanna parla delle demolizioni che sono appena iniziate, è qualcosa di impressionante dice, ma poi quasi per esorcizzarle, vuole mostrare l’ultima novità  aquilana, l’architettura delle polemiche e che invece potrebbe essere un trampolino di lancio, una specie di faro internazionale per ri-calamitare l’attenzione sulla città . È l’auditorium di Renzo Piano, piccolo edificio quasi giocattolo, ricoperto di strisce dai toni autunnali, con una serie di colori che ben si amalgamano con le foglie degli alberi nel giardino che lo ospita. Qualcuno ritiene che sia troppo invadente rispetto al Forte spagnolo che si staglia dietro di lui. Ma è pur vero che in una situazione di totale sospensione e immobilismo, sembra un’astronave piombata da un ultraspazio non ben identificato a promettere una vita futura. Così come la nuova facoltà  di scienze umanistiche, edificio bianchissimo e lattescente, inaugurato solo una decina di giorni fa, accanto all’ospedale San Salvatore che non c’è più e al suo posto sventola una specie di «sipario» che ne ridisegna per finta le architetture. Gruppetti di ragazzi chiacchierano in strada. Gli studenti – linfa vitale dell’Aquila – non hanno abbandonato del tutto la città , anche se un terzo di loro si è disperso. Fino a dicembre 2014 chi s’iscrive nelle Università  e Accademie del capoluogo abruzzese non paga le tasse. Una scelta che si è rivelata giusta e alla lunga potrebbe sconfiggere la tentazione di creare un luogo per soli fantasmi e malinconici turisti. Il silenzio dei cantieri Intorno però, ci sono solo palazzi ricoperti di plastica, enormi cantieri, gigantesche gru rosse, inattive. Quando visitiamo L’Aquila non c’è nessuno al lavoro, non si sentono rumori di trapani se non in lontananza. Eppure, è una mattina qualsiasi di un giorno feriale. A Collemaggio, giacciono allineati massi, marmi, tegole, una distesa infinita di oggetti color polvere e color sabbia. Ma non s’incontrano operai e il braccio spaventosamente alto della gru è piegato verso terra. La facciata della basilica risplende per il recente restauro, quasi una quinta teatrale che si alza fra le macerie. Qui, il protocollo d’intesa per restituire la chiesa alla città  l’ha firmato Eni. Ma ciò che è più urgente – per evitare sfruttamenti inutili, operazioni mediatiche o d’immagine per grandi gruppi imprenditoriali e il proliferare del malaffare – resta un piano organico di restauro monumentale e urbanistico. I fondi stanziati ci sono, ma non così le idee per ridare vita a quel tessuto. La depressione è di certo una cattiva consigliera.

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