by Sergio Segio | 10 Novembre 2012 8:16
Il dibattito attuale sulle conseguenze della crisi economica non si è soffermato con sufficiente attenzione sulla tendenza in atto a mettere in discussione le recenti conquiste del movimento delle donne nel campo delle pari opportunità , della partecipazione alla vita produttiva e sociale, della denuncia nei confronti della forma patriarcale di assetti simbolici fittiziamente definiti «moderni». Il volume di Chiara Meta, Neofemminismo e legislazione del lavoro negli anni Settanta. Verso la costruzione di una democrazia partecipativa (Prefazione di Fiamma Lussana, Aracne, pp. 157, euro 12) è un contributo importante per il superamento di una rimozione culturale e ideale per molte ragioni inquietante.
Fra gli aspetti più significativi della ricerca va innanzitutto evidenziata una riflessione attenta sui tratti caratteristici del femminismo degli anni Settanta, erede, solo in parte, del Sessantotto e di un movimento che, a partire dall’esperienza e dal pensiero emancipazionista e che allora stava per compiere quasi un secolo di storia, approdava ad una visione più ampia della questione di «genere» proponendo la centralità del tema della liberazione sessuale intesa come critica dei modelli culturali dominanti in una società ancora patriarcale, caratterizzata dalla presenza di diseguaglianze di genere e di classe.
Chiara Meta si interroga inoltre sul difficile confronto fra il movimento operaio, il mondo delle organizzazioni sindacali (con particolare attenzione alla storia della Cgil), i partiti della sinistra (dal Pci alle formazioni extraparlamentari), da una parte, e il movimento femminista dall’altra. Si è trattato di un confronto reso ancora più conflittuale non solo dalle tendenze al separatismo, presenti in molti percorsi del movimento femminista, ma soprattutto dalla difficoltà , anche all’interno delle formazioni politiche della sinistra, a dismettere gli abiti dell’autoritarismo di matrice patriarcale e, per usare le parole dell’autrice, dell’ordine-neutro-maschile.
Le elezioni del 1976, leggiamo nel volume, chiudono un ciclo di lotte avviatosi all’inizio degli anni Settanta. Si apre una fase di crisi delle conquiste raggiunte, come dimostra il fatto che la legge nazionale sui consultori (1975), la riforma del diritto di famiglia (1975), l’istituzione della Consulta femminile (1976), la legge sull’aborto (1978), la questione della parità d’accesso al mondo del lavoro (1977) non porteranno a sviluppi realmente significativi nel campo «della contrattazione fra potere istituzionale e movimento delle donne».
Uno spazio importante nel volume è dedicato alla genesi della legge sulla «Parità tra uomini e donne del lavoro» (1977). Il progetto – di cui l’ispiratrice principale e la prima firmataria fu Tina Anselmi – presentato alla Camera il 21 gennaio 1977 divenne rapidamente legge il 3 dicembre 1977, a conferma di quanto fosse matura la questione nella società civile di allora.
A questo proposito, Meta ricorda opportunamente l’esistenza di altri progetti, le cui istanze tuttavia vennero solo in parte recepite dalla legge: «Norme per la tutela dell’uguaglianza tra i sessi e istituzione di una Commissione parlamentare di indagine sulla condizione femminile in Italia» (presentato da Tullia Carrettoni senatrice del Psi); norme per una «Commissione permanete di vigilanza sulle pari opportunità » (presentato da Adriana Seroni deputata del Pci).
La discussione sulle manchevolezze della legge Anselmi (che non accolse, ad esempio. l’istanza della costituzione di una Commissione permanente) e delle sue pur significative potenzialità fu molto accesa nei movimenti femministi, nell’Unione donne italiane e in una parte non trascurabile dell’opinione pubblica.
Tullia Carrettoni, senatrice della sinistra indipendente, denunciava su «Noi donne», che la legge di fatto non aveva intaccato altre norme assai incivili del nostro codice come il cosiddetto delitto d’onore, il matrimonio riparatore, la non reversibilità della pensione delle donne. Sottolinea opportunamente Meta che il testo della legge Anselmi continua a sottintendere una visone della donna come custode primaria della famiglia rinunciando ad una deprivatizzazione della funzione materna e, dunque, ad una gestione paritaria dei ruoli di madre e di padre.
A distanza di circa trent’anni da quelle discussioni, in anni di crisi economica e di attacco al welfare, la tendenza prevalente, nel campo delle strategie del lavoro, è quella di rafforzare il reddito del capofamiglia e di far sì che le donne accettino un reddito sussidiario continuando a svolgere un ruolo di supplenza in mancanza di investimenti nei servizi pubblici.
L’analisi delle vicende legislative relative al mondo del lavoro negli anni Settanta in relazione al ruolo svolto dal neofemminismo diventa, all’interno di una ricerca assai documentata e lucida dal punto di vista interpretativo, il banco di prova del permanere di numerose forme di diseguaglianza e, inoltre, del loro aggravarsi in assenza di un governo democratico del mondo dell’economia e del lavoro, che solo può scaturire anche dal superamento del pregiudizio sessista e del ricorso alla retorica, di assai antica tradizione, della cura e della tutela come copertura del permanere di discriminazioni di genere.
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