Il Gorbaciov cinese

by Sergio Segio | 14 Novembre 2012 14:19

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PECHINO. PER il compagno Hu Jintao oggi è il giorno del congedo, l’attimo sospeso di massimo pericolo per un regime in cui l’uscita di scena non risulta sul copione. Mao Zedong morì imperatore. Deng Xiaoping impose la pensione a settant’anni, prima di essere risucchiato da comandante in capo nella tragedia di piazza Tienanmen. Jiang Zemin, privo di eredi, rimase segretario un anno di più e altri due al vertice delle forze armate: era il primo leader cinese a non aver fatto la rivoluzione, il primo privo del carisma per nominare il proprio successore. Ora tocca a Hu, il vuoto vestito di grigio, e per la prima volta la Cina prova ad essere un autoritarismo perbene. Le regole non ci sono, ma il partito-Stato le seguirà  e il “principe rosso” Xi Jinping allo scoccare della mezzanotte entrerà  da imperatore nella Città  Proibita.
Il 18° Congresso, che si chiude oggi a Pechino, è stato un’impressionante esibizione di ciò che è costretta ad essere una dittatura capitalista di successo al tempo dei social media. Capitale blindata, vietato portarsi in giro palline da ping pong, internet sotto sequestro, piccioni chiusi in gabbia e seconda economia del mondo in ostaggio di censura e propaganda. A giornali e tivù è stato ordinato di dare solo notizie entusiasmanti e di glorificare il «decennio d’oro» dello «sviluppo scientifico» di Hu Jintao e del premier Wen Jiabao. A seguire «l’evento politico più importante del decennio», 1.700 giornalisti di tutto il mondo. È chiaro che con branchi di cronisti gonfi di thé, sono necessarie conferenze stampa quotidiane. Il problema è che nessuno tra i 2.270 delegati del Congresso aveva il permesso di parlare.
Qualcuno ha risposto leggendo pezzi del discorso d’addio di Hu Jintao: «Seguiremo i temi approvati dal partito per promuovere le riforme». Altri hanno pregato di non fare domande. Altri ancora si erano fatti approvare due righe da leggere: «Sono il segretario del partito di Tianjin. Le mie responsabilità  sono di studiare seriamente e di discutere lo spirito…». Ai delegati selezionati per i video, sono state poste domande preparate che potevano dare l’illusione di una polemica: «Signor zio, le merendine si possono mangiare tranquillamente vero?». È su questa terrificante prova di autocontrollo collettivo, senza che uno solo degli 1,4 miliardi di cinesi sia riuscito ad avvicinarsi al mausoleo di Mao con un foglietto di blandissima protesta, che irrompono oggi il leader del futuro, la quinta generazione dei comunisti di mercato e i funzionari in Audi nera che già  si preparano a comandare, dal 2022 al 2032, quella che sarà  la prima potenza del pianeta. E se il Congresso, come da statuto, non poteva assumere alcuna decisione, limitandosi a ratificare le promozioni decise dai capi a riposo, gli interminabili interventi del Comitato centrale hanno eretto al contrario un’invalicabile «Grande Muraglia»: l’incubo contemporaneo della Cina è che da domani il misterioso Xi Jinping, conservatore progressista, cominci a rivelarsi un «nuovo Gorbaciov».
Alla vigilia dell’annuncio che vale assai più di Barack Obama alla Casa Bianca, ossia dei nove o sette nomi a cui per i prossimi dieci anni l’umanità  chiede di tenere acceso il motore della crescita, il sinistro marchio «nuovo Gorbaciov» è risultato pubblicamente impronunciabile, ma ha segnato il dietro le quinte della lotta più spietata per il potere che la Cina abbia subìto dalla dipartita del Grande Timoniere. Poche ore e tutti sapranno fino a che punto Hu Jintao verrà  umiliato, perdendo subito anche la presidenza della Commissione militare centrale, se Wen Jiabao, travolto dalla parentopoli di famiglia, farà  la fine di Bo Xilai, epurato con l’accusa di essere l’ultimo maoista del Paese. Se hanno prevalso gli appetiti tradizionali dei “principi rossi” o gli affari più sofisticati della Lega della Gioventù comunista, i titoli della Borsa di Shanghai o gli appalti lungo gli anelli di Pechino, i cosidetti riformisti o gli autocertificati conservatori. Dopo sessantatre anni di socialismo militarizzato tutto può perfino essere tollerato, se non minaccia la stagnazione dell’apparato: tutto ma non un enigmatico gigante bonaccione, coniugato con una star del folk, che si metta in testa di passare alla storia come il Gorbaciov dell’Asia, scatenando la rivoluzione dall’alto per trasformare la Cina in una replica dell’Occidente.
Momenti storici e situazioni interne non paragonabili, tra Mosca e Pechino. Ma dentro un’oligarchia legittimata dall’obbedienza del partito e dalla fedeltà  dell’esercito, e non da un libero mandato popolare, il rischio di una “svolta democratica” capace di calmare una popolazione sempre più indignata da corruzione del potere e disparità  tra ricchi e poveri, è lo spettro con cui il Congresso è stato costretto a confrontarsi. L’ultimo discorso di Hu Jintao da segretario generale, auto-difesa di tutta la nomenclatura rossa, è stato il manifesto dell’anti-perestrojka cinese: partito unico in eterno, no all’imitazione dell’America, consolidamento dell’economia di Stato, ma pure via libera al mercato, obbligo di raddoppio del Pil e benessere per tutti. Come se Pechino volesse segnalare che oggi sarebbe più conveniente se Usa e Ue si cinesizzassero almeno un po’, piuttosto che vedere una Cina tardivamente contagiata dalla sindrome dell’Urss.
I candidati scelti ieri per il Comitato centrale, che elegge oggi i venticinque del Politburo, gli immortali del Comitato permanente e i dodici intoccabili della Commissione militare centrale, hanno fatto il possibile per mettersi al riparo da quella che le autorità  definiscono putinianamente «una catastrofe». L’americano Bo Xilai, neo-profeta del leaderismo mediatico etichettato come nostalgico della canzoni proletarie, è al sicuro e in attesa di processo. Xi Jinping può così prendere le redini del partito a vent’anni dalla morte del padre, epurato e riabilitato eroe della rivoluzione, sotto la tutela dei generali e grazie alla garanzia dell’ottantaseienne Jiang Zemin. «Primus inter pares », è stato cinturato da un collegio cardinalizio a prova di sorprese: parola d’ordine «stabilità  ». Solo l’avvocato Li Keqiang, premier dal prossimo marzo e unico superstite della banda di Hu, è accreditato di accettabili dosi di riformismo, almeno economico. Congelato il sistema, il leader uscente dovrebbe dunque annunciare oggi anche il suo clamoroso addio alle armi, dimettendosi contemporaneamente da esercito e partito, per la prima volta nella storia cinese, a riprova di quanto Pechino sia in allarme per la sicurezza interna e per i venti di guerra che soffiano tra i vicini di casa e sul Pacifico. «La situazione globale — ha confidato un delegato che ha passato la selezione per il Comitato centrale — non consiglia alla Cina di restare, come in passato, un paio d’anni con due centri di potere».
Stop al gorbaciovismo confuciano, ma scelte nette: percentuali maggiori di «democrazia interna al partito», una sorta di “primarie” chiuse e riservate per selezionare i leader del futuro, test elettorali nei villaggi, sondaggi popolari preventivi per stabilire il livello di opposizione di massa alle grandi opere e target predefiniti per la crescita del Pil. Altrettanto insuperabili, almeno per due generazioni, i quatto no affidati da oggi a Xi Jinping: no al multipartitismo elettorale, no a indipendenza o autonomia per le regioni ribelli di Tibet storico e Xinjiang, no al riconoscimento dei crimini di Mao e del massacro di piazza Tienanmen, no alla libertà  di espressione e alla liberazione dei dissidenti. Il vecchio sovrano Hu Jintao esce oggi di scena con la mesta dignità  nazionale di chi si è limitato a non sperperare il patrimonio di famiglia. Il nuovo imperatore Xi Jinping sale oggi sul trono della Cina con il trionfante mandato globale di riformarla per non cambiarla: di seppellire Lenin e Mao, ma senza diventare Gorbaciov.

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