IL CIELO IN UNA STORIA

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Non è solo una fortunata coincidenza, come vedremo, se ci arrivano tradotti in contemporanea dal Libano – nazione-puzzle cosmopolita per antonomasia – due libri bellissimi accomunati dal racconto di una casa: il luogo fisico nel quale un’identità  può essere ridotta in macerie o ricostruirsi sotto forma nuova, arricchita dall’esperienza dell’emigrazione. Il primo ha la forma di romanzo classico, scritto da Jabbour Douaihy (San Giorgio guardava altrove, Feltrinelli); l’altro è un mémoire di Anthony Shadid, inviato del New York Times recentemente scomparso in Siria, che nel 2009 fece ritorno al paese d’origine della famiglia emigrata in Oklahoma per ristrutturarvi l’abitazione che fu della nonna (La casa di pietra, add). Generi diversi, ma entrambi rivelano un talento narrativo che si sprigiona come onda lunga della primavera araba, finalmente capace di elaborare il distacco dalla guerra civile fra clan e da una visione nazionalistica del conflitto medio-orientale.
Surreale, nel romanzo di Douaihy, è la scena del controllo di polizia nella casa di Beirut affacciata sul mare subaffittata da una profuga russa al protagonista Nizam; un ventenne che ha buoni motivi per dichiararsi figlio al tempo stesso di una madre musulmana e di una madre cristiana. Il variopinto ma affiatato gruppo di militanti libertini costretto dagli agenti a esibire la carta d’identità  durante la perquisizione, scopre così per la prima volta le diverse appartenenze di ciascuno, fino ad allora considerate irrilevanti. C’è l’ortodosso e il sunnita, c’è il maronita, lo sciita e perfino un ebreo. Diventeranno le linee di demarcazione di un conflitto destinato a infrangere il loro mosaico. E quando Nizam sfiderà  i cecchini per recare in dono un pappagallo parlante alla giovane pittrice che ama, l’animale che strilla un nome musulmano nella
zona presidiata dai cristiani rischia davvero di giocargli un brutto scherzo. Tragicomico, come il rapporto con i fratelli integralisti che lo rinnegano. Ma è solo oggi, a vent’anni di distanza, che uno scrittore libanese trova gli accenti giusti dell’ironia e della compassione nel descrivere la naturalezza e l’ingenuità  dei sentimenti calpestati; e la follia dei miliziani che infestano il Libano di posti di blocco dove la vita non vale più nulla. Perché Jabbour Douaihy, docente di letteratura francese all’ateneo di una città  tuttora esplosiva come Tripoli, nel Libano settentrionale, ha vissuto immerso in queste dinamiche rancorose. Ne ha già  indagato l’innesco così simile alle faide medievali in un altro romanzo, Pioggia di giugno, e ora sceglie di narrare magistralmente l’innocenza donchisciottesca di Nizam e, con lui, di madri, sorelle, amanti, prostitute, amiche sovrastate da una crudeltà  insensata.
Anthony Shadid, viceversa, può far tesoro del suo passaporto americano. Colloca nella storia il suo ritorno in un luogo familiare dapprima solo immaginario. Arriva nella sua Marjayoun e la trova soffocata da confini che ai tempi dei suoi avi non esistevano. Dalle finestre della casa si vedono la valle di Hula divenuta Israele, il monte Hermon divenuto Siria, e più in là  la Giordania. Lo stesso Libano è un’invenzione post-coloniale, perché la dimensione autentica del Levante, dalla Mesopotamia al Mediterraneo, resta il crogiuolo per secoli custodito nel grembo dell’impero ottomano. Ricostruire la “sua” casa di classica architettura libanese (proprio come quella in cui sono nato io, che ho ritrovato miracolosamente intatta a Beirut), con gli archi di struttura araba e le tegole rosse importate da Marsiglia, lo mette in relazione col capomastro Abu Jean, con muratori svogliati e notabili sospettosi grazie ai quali assapora «l’infinito piacere della discordia» così tipico del luogo. Un anacronismo? No: «A volte il passato è meglio immaginarlo che ricordarlo». Così la casa di Marjayoun rinasce bellissima, circondata dallo scetticismo dei paesani, come qualcosa di nuovo che emana una sorta di pace. È la risposta al fallimento di Stati «senza ambizioni se non quella di conservare il potere di insignificanti despoti, o lo sciovinismo di un popolo, o la paura di un clan». Questa Marjayoun che «subì la nascita dei confini perdendo il suo autentico retroterra in Palestina e in Siria», ha seguito la sorte di tante «città  cosmopolite divenute gradualmente ma irrevocabilmente nazionali».
Come dargli torto? Shadid e Douaihy esprimono una rinascita intellettuale araba resa possibile non da un oscurantista riflusso in cerca delle origini – che è poi l’ideologia del fondamentalismo islamico – bensì dalla contaminazione con l’occidente. Riconosciamo in questi due autori l’impronta dell’opera tormentata ma innovatrice di Edward Said, transfuga da Gerusalemme agli Usa, in bilico fra i due mondi com’è inevitabile oggi.
Sono le diaspore contemporanee l’energia vitale che aspira all’unica ricomposizione possibile, anche attraverso la ricerca delle pareti domestiche, la buona vecchia casa. Per questo le case risultano protagoniste pure nel romanzo di Douaihy, da quella natale ma oscura di Tripoli a quella cannoneggiata di Beirut, passando per i profumi della casa di montagna in cui si mischiarono le identità  di Nizam. Non a caso leggere La casa di pietra mi ha richiamato alla mente un altro mémoire potentissimo come Gli scomparsi di Daniel Mendelsohn, spasmodicamente impegnato a ritrovare l’ultimo rifugio dei parenti nella Galizia ucraina cancellata dalla guerra. Siamo in tanti, ormai, a perseguire una tale ricerca guardando al futuro, dopo che ci siamo liberati dalla falsa retorica delle radici.
Spiega bene Shadid che «bayt in arabo significa letteralmente casa, ma le sue connotazioni vanno oltre le stanze e le pareti, evocano desideri raccolti intorno alla famiglia e al luogo abitato». Anche in ebraico bayt significa casa. Ce la portiamo dietro, aspiriamo a ricostruirla.


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