by Sergio Segio | 1 Novembre 2012 8:00
NOVELLARA (Reggio Emilia). Comunità . L’essere umano al centro. Andare verso il basso. Ricominciare dal basso. Fiducia – nell’altro e in se stessi. Connettersi all’interno di una società frammentaria. Questi sono solo alcuni dei concetti chiave sentiti in quasi tutti gli interventi teorici – e non – nel corso dell’edizione 2012 di Uguali_Diversi, festival delle culture inventato nel 2009 dal sindaco di Novellara, Raul Daoli, assieme a un gruppo di intellettuali e studiosi per fronteggiare i tanti problemi emersi in una zona con un tasso di immigrazione altissimo, e soprattutto con tante etnie diverse da tutto il mondo. A cominciare dagli indiani arrivati dal Punjab per allevare le mucche che producono il latte per le tonnellate di parmigiano-reggiano, dai marocchini attivi soprattutto nel settore edile, i cinesi nella ristorazione, gli albanesi, i pakistani, i russi, ecc.
io. tu. noi. Ecco il motto breve di quest’anno per un tema di ampia portata: Comunità . Come? Argomento che si affianca perfettamente alla quinta assemblea generale delle città slow svoltasi in contemporanea dal 19 al 22 ottobre con centinaia di partecipanti giunti dalle oltre centocinquanta città sparse nei cinque continenti che ormai aderiscono a questa rete di piccole città riunite sotto il concetto che aveva dato vita all’ormai famosissimo Slow food di Carlo Petrini. Mentre questo si potrebbe paragonare a un brand, e di fatto è un’associazione privata con soci privati, qui ci sono enti pubblici a mettersi insieme nel loro ruolo di rappresentanti delle varie comunità , le città .
I requisiti per avere il «marchio»
Novellara è membro dal 2010, e come per miracolo è stata soltanto sfiorata dal terremoto di maggio che aveva devastato l’intera zona attorno a Reggio Emilia, Mantova e Ferrara in un raggio di settanta chilometri. Fu il terremoto a far rinviare la data di questa due giorni straordinaria che per Raul Daoli era «l’assemblea di una Onu dal basso», avendo portato tanti sindaci dal mondo intero a studiare assieme strategie del “buon vivere”. Questo è lo slogan della rete internazionale delle cittadine che per farne parte non devono superare i 25 mila abitanti e devono superare un rigoroso test per quanto riguarda i requisiti necessari: «Siamo alla ricerca di città , in cui vivono persone curiose del tempo ritrovato, città ricche di piazze, teatri, caffè, ristoranti, luoghi animati, paesaggi originari, artigianato, in cui le persone riconoscono la lentezza del vivere, il ritmo salutare della stagioni, la bontà dei prodotti e la spontaneità delle usanze, nonché sanno gustare i sapori e rispettare la salute…» La prima città slow era nata in Italia nel 1999 per volere dell’ex sindaco illuminato di Greve in Chianti, Paolo Saturnini, a cui si sono da subito uniti quelli di Orvieto, Positano e Bra per fondare la rete con sede nella stessa Orvieto (vedi cittaslow.org).
Significativa e simbolica in questo senso è stata la grande cena di sabato 20 ottobre, anche primo giorno di questo festival che nel suo essere dedicato alle culture di fatto parla di politica nel senso originario della sua radice greca polis – la comunità , appunto. Nell’enorme salone Giovanni Paolo II, ex magazzino della Motori Slanzi di oltre 500 mq. ristrutturato cinque anni fa e di proprietà della parrocchia, dotato di tutte le autorizzazioni necessarie, sono state servite otto portate con piatti originari di altrettanti paesi per oltre quattrocento persone provenienti da tutto il mondo. Piatti tipici preparati dalle donne, lavorando (e quindi parlando e ridendo) assieme per ore e ore in cucina sotto la sapiente guida di Eletta, donna delle terre emiliane artefice del progetto interculturale Nessuno escluso per avvicinare le persone grazie alle arti culinarie (sarà un caso che questa donna di oltre sessant’anni, energica, ama anche ricamare, fare composizione floreali all’insegna di “colori e sapori”?).
Abbiamo imparato così che l’insalata russa in Russia si chiama Salade Olivier, dal cuoco francese che l’aveva adattata ai freddi siberiani utilizzando le verdure trovate a Mosca nell’Ottocento avendo lavorato nelle cucine del museo L’Hermitage, o che il cous-cous si usa fare con sette o anche meno verdure. Che tanti progetti nascono intorno a un tavolo si sa, e qui di progetti ne sono nati di sicuro tanti, visto che il sindaco della tedesca Waldkirch ha parlato agli altri seduti vicino del riscaldamento a pellet sperimentato con successo nel suo comune, mentre altri si preparavano ad accogliere nell’assemblea plenaria di domenica mattina la candidatura di Kesennuma, città tra le più colpite dallo tsunami nel marzo 2011 in Giappone. Come tutte le altre, il suo sindaco aveva fatto richiesta, ci spiega Pier Giorgio Olivetti (direttore di Cittaslow Int’l), per avviare la ricostruzione coi principi di città slow e alimentare così un profilo alto sul piano culturale, scientifico, nella difesa del suolo, della memoria e della resilienza (termine che deriva dalle scienze biologiche e vuol dire «svilupparsi senza alienare il proprio patrimonio territoriale», quindi no! a cementificazione eccessiva, distruzione dei piccoli negozi, alle vecchie e nuove povertà , e sì! a etica nel lavoro, coesione sociale, nuove alleanze tra le generazioni – al benessere tout court).
Gita a Mirandola
Di ricostruzione si parla molto anche in Emilia. Domenica mattina siamo andati in macchina da Novellara a Mirandola, la città con cui Raul Daoli ha da subito stretto «un patto di amicizia e ricostruzione culturale» per sostenere questa città tanto sfregiata (il teatro, benché intero, è chiuso da maggio perché la sala, il palco e i camerini sono inagibili). Sin da subito Caterina Della Casa, assessore alla cultura di Mirandola, è stata coinvolta nel calendario del festival, per cui nella tensostruttura eretta in Piazza Costituzione si sono svolti ben due interventi dedicati alla comunità : di quella ferita ha parlato Maurizio Campa, giornalista e saggista, di quella che risorge ha cantato Moni Ovadia. Dico cantato perché le sue parole si erano alzate come canti poetici, pieni di rabbia e di speranza, nel cielo grigio fino a far disperdere le nuvole e far uscire il sole. Tetra fu l’atmosfera quando arrivammo passando per i paesini di Cavezzo e Concordia, entrambi distrutti, dove nell’ultimo è stata tolta da poco la tendopoli (in cui erano ospitate soprattutto famiglie di origini non italiane e povere) e il cui cimitero distrutto avvolto dalle nebbie assumeva un’aria ancor più desolante. Entrando a Mirandola s’incontra per prima l’edicola, in un container, poi la banca, in un container, la farmacia, in un camper, i bar nelle casette di legno: fuori le stesse file di persone che ci sarebbero state anche in condizioni cosiddette normali.
La desolazione regna nel centro storico, appena girato l’angolo della grande piazza, le stradine transennate, le case abbandonate, le tende tirate, un silenzio tombale in cui fanno eco i propri passi, mentre lo sguardo cerca appigli tra le tante finestre e porte sorrette da impalcature di legno. La facciata della Chiesa di San Francesco è impacchettata, con strutture di legno e tubi innocenti, con una croce in cima che si staglia minacciosa e speranzosa contro il bianco-grigio del cielo, mentre quello nero in ghisa, caduto dal Duomo, crollato, è sdraiato sul cumulo di mattoni per terra, accanto al capitello intatto, sul piazzale davanti. Passa qualche persona, ognuna racconta il proprio vissuto di quell’istante in cui le fondamenta hanno tremato, non solo quelle delle case ma anche quelle di tante vite che da allora sono cambiate. Profondamente. Lì, in mezzo alle strade transennate, ai tanti edifici crollati, alle case ferite, si percepisce un’aria di morte, il brioso tempo di vita congelato in un attimo. Fermo. Dietro la chiesa sorge l’ex convento che oggi ospita il liceo-ginnasio intitolato a Pico della Mirandola, una realtà scolastica che conferisce onore e identità a questa cittadina scossa fino a metà luglio (e tuttora, ci dicono) da ondulazioni benché minime tra il grado 2 e 2.8 della scala Richter. Si è tanto parlato di efficienza e ricchezza di queste zone, molto più veloci nella ricostruzione rispetto a L’Acquila. Si può fare un confronto tra una zona colpita in larghezza (il cratere misura oltre settanta chilometri con tanti piccoli centri) e una città colpita nella profondità dei suoi tesori artistici? Il benessere diffuso nell’Emilia ha senza dubbio contribuito a contenere più o meno il danno laddove c’erano edifici ristrutturati da poco, pubblici e privati; la buona amministrazione pubblica ha sicuramente contribuito a mettere da subito in moto le azioni in rete, così come gli esercizi di prevenzione hanno dato i loro frutti. Prove di evacuazione per sisma e incendio si fanno tre volte all’anno in tutte le scuole, e gli insegnanti ci confermano che proprio lì ci sono stati meno problemi nella fase acuta. La capacità organizzativa in una società in cui molte imprese e aziende sono strutturate in cooperative lascia intravedere dove sono stati spesi i soldi: nelle strade, nelle fognature, nelle reti elettriche e del gas. Ci dicono che la luce non era quasi mai mancata. Molti problemi sono emersi dopo. Quel dopo che crea le maggiori difficoltà : dalle molte crepe nelle case alla cristallizzazione della paura. I cosiddetti “campi della paura”, ad esempio, c’erano fino alla fine di giugno nei parchi: piccole tendopoli autogestite in cui ogni famiglia aveva eretto la propria tenda per dormirci e mangiarci, dopo il lavoro. Quanta materia di studio per sociologi e psicologi, se solo si fossero affacciati! Veri e propri laboratori di convivenza socio-culturale: le grandi tavolate delle famiglie napoletane o i cartoni apparecchiati da marocchini e pakistani. I bisogni delle persone si esprimevano nelle abitudini della quotidianità , riprodotte fedelmente in una dimensione sociale importante. Se la piazza principale e le piazzette sono transennate si perdono spazi importanti di aggregazione: basta ricrearli altrove. Non è facile, dato che nelle piccole città il fulcro della vita sociale è pur sempre il centro, l’uscita dalla chiesa, dal teatro, dalla scuola. E qui, paradossalmente, si avvia una riflessione positiva per esempio nel campo della politica economica, per cui i piccoli negozi che “prima” erano a rischio chiusura per via dei tanti megastore sorti nelle periferie, ora nel “dopo” vengono sostenuti nella riapertura nei centri.
Dopo il terremoto
In questa direzione andavano gli interventi di Maurizio Ciampa e di Moni Ovadia: benché l’istante in cui la terra trema dura poco, la ponderazione sopraggiunge dopo. E la terra trema anche a livello simbolico, ha precisato Ciampa citando testi storici che parlano di terremoti storici per consigliare a insegnanti come accompagnare i giovani nell’elaborazione di questo trauma. Il terremoto mette in discussione la vita, fa perdere i presupposti per ogni cosa, è l’irrazionale per eccellenza, l’assoluto imponderabile. Ti sorprende, sempre, e un male irriducibile non permette di fare esperienza. Ciampa riflette anche sul fatto che ai tempi del terremoto di Lisbona, nel 1655, i pensatori si erano sentiti chiamati a rispondere all’enigma sorto, a quello nel Giappone invece era seguito il “silenzio del pensiero”. Come mai? Forse per l’eccessiva presenza di tecnica che richiede risposte tecniche e non di senso, dato che la tecnica non sa riflettere su se stessa? Chi non si era meravigliato dei tanti servizi visti in televisione sulla popolazione giapponese addestrata nel tener testa alle difficoltà del dopo?
Zygmunt Bauman e Marx
La tecnologia avanzata serve per la previsione e per la prevenzione, ma nel caso di un terremoto non è in grado né di prevedere né di prevenire: il terremoto è imprevedibile. Per cui ci scuote, dentro e fuori. Prova ne è che a detta di un’insegnante sono stati i bulletti ad andar giù di testa per primi, essendo in fondo di costituzione fragile, dentro, ed è stato grazie a Marco Maggi e Alberto Genziana, rispettivamente di Cuneo e di Piacenza, che gli stessi insegnanti sono stati formati per poter narrare e far narrare l’imponderabile incapsulato nelle anime travolte da ciò che l’essere umano non (si) sa spiegare. A cosa fare riferimento? Attorno a cosa farsi coesi? Come rinsaldare le relazioni nel piccolo e nel grande per affrontare i conflitti che nascono nelle e dalle ferite personali e pubbliche? «Si può solo ripartire dalla comunità , con la consapevolezza che l’essere umano è collocato in una natura che lo può sopraffare, sempre», suggerisce anche Moni Ovadia. Per coltivare le relazioni umane contro i poteri forti, avendo l’essere umano il diritto alla dignità e al proprio valore. A prescindere, da tutto ciò che oggi ci codifica o vuole codificarci attraverso l’economia, il lavoro, il denaro. E qui torniamo a ciò che abbiamo sentito dire da Zygmunt Bauman nel suo intervento in video Comunitas. Bisogno di comunità , attorno al concetto marxiano di “classe in sé” e “classe per sé” nonché di Gemeinschaft vs Gesellschaft (in italiano: comunità vs società ). Entrambi i concetti erano stati ripresi da Salvatore Natoli chiamandole «comunità di appartenenza» e «comunità di elezione».
Nel giardino e nelle sale della Rocca dei Gonzaga, sede del comune di Novellara e dell’intera manifestazione, c’erano anche vari laboratori: dai cittadini pensanti alla biblioteca vivente, fino a Mi gioco la città . Inventiamo e costruiamo la nostra città ideale, per i bambini. Calza a pennello la frase tratta da Servabo di Luigi Pintor, citata da Brunetto Salvarini nella presentazione del nuovo libro di Gabriella Caramore, Nessuno ha mai visto dio, che si è svolta alla Casa della carità : «Non c’è in una intera vita nulla di più importante che chinarsi, affinché un altro cingendoti il collo possa rialzarsi».
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Fondato nel ’99, è internazionale
La rete è stata fondata il 15 ottobre 1999 presso il Teatro Mancinelli di Orvieto, per iniziativa dei sindaci di Bra, Greve in Chianti, Orvieto e Positano, nonché della stessa Slow Food. Attraverso convegni ed iniziative culturali promuove una filosofia di vita all’insegna di ritmi più umani ed ecosostenibili. Il Coordinamento italiano si è costituito il 5 settembre del 2009 a San Miniato, in Toscana. Ne fanno parte tredici città slow: Acquapendente (Vt), Asolo (Tv), Bazzano (Bo), Castelnuovo Berardenga (Si), Caiazzo (Ce), Chiavenna (So), Chiaverano (To), Orsara di Puglia (Fg), San Gemini (Tr), Santa Sofia (Fc), Tirano (So), Torgiano (Pg), Zibello (Pr). La cittadina di Pollica (Sa) è stata nominata referente di collegamento con il Comitato di Coordinamento Internazionale Cittaslow. Ma i comuni che sono entrati a far parte della rete sono molti di più. Tale titolo ha durata di 3 anni e si rinnova a condizione che le amministrazioni mantengano le condizioni primarie di ammissibilità . Il sito di riferimento del network internazionale è www.cittaslow.org. Da lì si può cliccare sui diversi siti nazionali e leggere le notizie relative al movimento. Su quello italiano si può leggere l’elenco delle città che possono apporre al loro stemma il logo con la chiocciola che contraddistingue anche Slow food.
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