Il bene comune e l’alternativa al capitalismo

by Sergio Segio | 2 Novembre 2012 7:32

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Hanno questa valenza perché mettono in discussione il capitalismo da tre angolature essenziali: l’economia di mercato e quindi la mercificazione delle cose e delle persone; la proprietà  privata e quindi lo sfruttamento del lavoro e della natura; la democrazia rappresentativa, che nella globalizzazione neoliberista non garantisce la partecipazione e il controllo dei cittadini, neanche in misura limitata. 
I beni comuni naturali sono risorse fisiche essenziali alla sopravvivenza, e sono pertanto diritti universali, come sostengono i giuristi; ma non sono diritti universali, che diventano beni comuni se e quando le risorse naturali, cui i diritti si riferiscono sono gestiti “in condivisione”. Non è la destinazione dei beni comuni che li rende tali: le risorse essenziali alla sopravvivenza sono beni comuni “a prescindere”, anche se appropriate o “recintate” dal capitale. Né i beni comuni naturali diventano tali grazie alla conversione delle produzioni e alla riteritorializzazione dei mercati, che sono un tassello decisivo dell’alternativa, ma non trasformano in beni comuni i settori produttivi riconvertiti. 
I beni comuni non sono neanche “il” bene comune, che è invece l’ interesse generale di un paese, garantito dai governi. La letteratura sui beni comuni (scarsa in lingua italiana) e il dibattito corrente (spesso ridondante), dividono i beni comuni in quattro categorie: i beni comuni naturali, quelli culturali (il linguaggio, la conoscenza, il patrimonio artistico); quelli sociali (i servizi pubblici e le acquisizioni dello welfare); e quelli digitali (internet in tutte le sue articolazioni). Prendere a prestito una espressione simbolica come i beni comuni è utile, ma a condizione che non si faccia un calderone trattando allo stesso modo quel che è diverso, e deve essere analizzato nella sua specificità .
La rilevanza dei beni comuni naturali, a volerla riassumenre in un solo concetto, è proprio la loro diversità  e specificità  di luogo e di tempo. La cultura sottostante i beni comuni naturali è opposta a quella del capitalismo: mentre la prima valorizza la diversità  e il locale, considerandoli la vera ricchezza di un popolo e di una comunità ; la seconda li nega in nome dell’ideologia dell’homo oeconomicus che rende un uomo eguale a tutti gli altri, un’ora di lavoro eguale a tutte le altre, la competitività  una necessità  intrinseca ancor prima che economica, legata al profitto. Non esiste una definizione unica dei beni comuni naturali, la cui forza è proprio la flessibilità  con cui le comunità  – i soggetti titolari dei beni comuni – riescono ad adattarsi al variare delle situazioni. 
E’ possibile tuttavia descriverne i tratti distintivi, uno dei quali è proprio la diversità . Un altro è l’auto-organizzazione della comunità , che è una forma importante di democrazia diretta, capace di correggere e integrare quella rappresentativa. I beni comuni sono infatti sistemi locali, diversi nello spazio anche nello stesso periodo storico, e proprio per questo esprimono una alternativa reale – ancorché parziale – al paradigma del mercato: la loro flessibilità  permette di utilizzare al meglio le risorse presenti sul territorio, evitandone il degrado e la distruzione, che sono invece ineliminabili nel modello capitalistico. Sul territorio è inoltre possibile far emergere e valorizzare le risorse umane di creatività , intelligenza ed energia delle persone, che sono la risorsa più scarsa in assoluto in una società  ecologicamente e socialmente sostenibile. 
A sostegno della priorità  dei beni comuni naturali, ci sono diverse ragioni: la prima, quella di essere beni di sopravvivenza senza i quali nessuno – né ricchi né poveri – può sopravvivere. Dopo, ma solo dopo, vengono conoscenza e cultura, servizi e internet. Un’altra ragione è che in ciascuno dei quattro elementi vitali di Empodocle si racchiude tutta la realtà , quella di oggi come quella di ieri e dell’altro ieri. L’acqua ad esempio non è solo quella che beviamo ma anche quella per la cura di se, per lo smaltimento dei rifiuti, per la produzione agricola e industriale, etc. Una terza ragione è che nel terzo millennio le frontiere del profitto si sono spostate sui beni comuni e sui beni pubblici, e cioè sul patrimonio consolidato di beni naturali, infrastrutturali e di servizi, il cui valore è in parte un “regalo” della natura e in parte frutto dell’ingegno e del lavoro delle comunità  e delle popolazioni locali. Una ricchezza collettiva molto appetibile per le grandi multinazionali e per la finanza, che è al centro dello scontro sociale in Europa e nelle guerre in corso in molte parti del mondo per le risorse naturali e il controllo del territorio. 
Nel passaggio dal Medioevo alla Modernità , i beni comuni sono stati appropriati (enclosed) dal capitale e la natura è scomparsa dall’orizzonte delle scelte economiche e politiche, come è successo all’agricoltura contadina nel secolo scorso. La sottovalutazione della natura ha avuto effetti devastanti e duraturi nel tempo: ha legittimato la schiavitù e il colonialismo; l’introduzione su vasta scala della chimica in agricoltura; l’uso generalizzato di energia fossile; l’impiego di tecnologie pericolose e di sostanze cancerogene nei luoghi di lavoro, dove i lavoratori vanno a morire come fossero in guerra. Il caso Ilva ne è la riprova inequivocabile, così come gli incidenti mortali sul lavoro. 
L’esperienza europea del Medioevo e quella attuale nei paesi del Sud del mondo offrono elementi utili a capire come i beni comuni naturali potrebbero essere riproposti per superare la crisi del capitalismo. Una condizione è che il progresso non sia identificato con il “nuovo” mentre è un misto di presente e di passato: fare terra bruciata del patrimonio di esperienze del passato contraddice infatti ogni regola di buon senso. La crisi del capitalismo potrebbe essere l’occasione per rilanciare questa esperienza storica di auto-regolamentazione delle risorse locali e del territorio da parte delle nuove comunità  locali, da identificare nei comitati di lotta e nei movimenti ambientali e sociali che esistono mumerosissmi ovunque. Un esempio italiano noto è il Comitato NoTav della Val di Susa.
Un’altra condizione è che a questi nuovi soggetti venga riconosciuto per legge il potere di co-decidere sull’uso del loro territorio, avendo pari dignità  rispetto alle altre istituzioni già  presenti sul territorio, innanzitutto i governi locali. Il ritorno dei beni comuni qui auspicato, o la loro reinvenzione come sostiene la Fondazione tedesca Heinrich Boell, si colloca in questa prospettiva strategica: richiede di considerare i movimenti ambientali e sociali e i comitati di lotta che operano in difesa delle risorse naturali e della giustizia sociale e ambientale come istanze che esprimono le esigenze del territorio e dei suoi abitanti, avendone il potere formale e sostanziale. 
Questo modo di intendere i movimenti permetterebbe di superare il duopolio stato-mercato immettendo nel sistema un terzo soggetto di democrazia diretta e insieme elementi di democrazia politica, capaci di rompere gli steccati costruiti dal capitale per concentrare le decisioni che riguardano tutti nelle mani di pochi, sempre più lontano dai luoghi dove le persone vivono e possono dire la loro. Si metterebbero così in discussione i pilastri su cui si regge oggi l’economia mainstream – l’oblio della natura, la competitività  internazionale, la produttività , la competenza, la crescita. In sintesi, l’ingiustizia sociale e ambientale.

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