IDEE PER UN SECOLO

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Un libro può essere tanti libri insieme, e questo è il caso di Thinking the Twentieth Century di Tony Judt, tradotto ora in Italia con il titolo di Novecento. Il secolo degli intellettuali e della politica (Laterza, pagg. 414, euro 22). Un racconto “parlato” che mescola autoritratto anche intimo, vicende storiche, geografie ideali e acuta fenomenologia dei maà®tres à  penser. E lo fa con naturalezza, come se la storia intellettuale del Novecento fosse già  tutta dentro Judt, dentro la sua testa e in parte dentro la sua vita. Ma come sia entrata, e come ne sia uscita, è una domanda a cui non sa rispondere neppure il suo interlocutore Tim Snyder.
Il fascino del libro, che coniuga vissuto e mestiere di storico in modo molto più strutturato rispetto al precedente Chalet della memoria, è anche nella sua costruzione. Judt progettava di realizzare una storia intellettuale e culturale del pensiero sociale nel XX secolo quando fu colpito dalla Sla, malattia degenerativa che paralizza le mani per scrivere, ma non la testa. Il volume era già  tutto nella sua mente, le biblioteche ideali già  tracciate dalle ricerche precedenti, e non fu difficile per Snyder – giovane cattedratico di Yale e autore di un lavoro importante come Terre di sangue – convincerlo ad accettare un libro di conversazioni. S’erano conosciuti e reciprocamente apprezzati grazie al comune interesse verso l’Europa orientale. Nell’arco di otto mesi, dal gennaio all’estate del 2009, ogni giovedì Snyder è andato a trovarlo nella sua casa di New York. Man mano che la conversazione procedeva, la malattia progrediva in un crescendo drammatico. Prima la ventilazione meccanica, poi la sedia a rotelle elettrica, infine l’immobilità  assoluta ad esclusione degli occhi e delle corde vocali. Per il lavoro potevano bastare. Mentre il corpo moriva, il pensiero continuava a infiammarsi, ostinatamente aggrappato alla vita.
È un bellissimo viaggio dentro una vita che pensa, questo Novecento di Judt. Un libro un po’ strano come piuttosto bizzarro è il suo autore, storico tra i più brillanti e riconosciuti ma mai acquietato fino in fondo. Nato nel 1948 in Inghilterra ma mai completamente inglese. Figlio di famiglia ebrea ma estraneo a quella comunità . Per un periodo sionista ma poi critico del sogno realizzato. Marxista riluttante e poi liberale dissidente grazie agli amici dell’Est. Blasonato professore di Oxbridge ma anche studioso ribelle e in qualche caso irrispettoso di convenzioni codificate. Intellettuale pubblico molto ascoltato in America e però allergico al mainstream della Grande Mela. Outsider – se ci si pensa bene – anche nella malattia. E in fondo l’unica volta che si è sentito insider accadde nei primi anni Ottanta in una cerchia di amici polacchi e cechi, per i quali «riformare il socialismo era come friggere palle di neve». Quanto di più outsider potesse esserci.
L’indole da irregolare è il filo rosso che attraversa le conversazioni di Novecento.
Come a dirci che solo un’inquieta estraneità  permette uno sguardo più libero sul secolo breve. Un pluralismo interpretativo – esercitato nel suo celebre Dopoguerra – che non impedisce a Judt di essere uno storico opinionated, ossia segnato da una visione precisa, e anche influenzato pur in modo non meccanico da pezzi importanti del suo vissuto personale. «Uno storico senza opinioni non è molto interessante», si difende lui. Ed è anche la sapidità  dei suoi giudizi a rendere viva la riflessione, lame dirette su se stesso e sui fenomeni culturali da lui studiati o personalmente vissuti. E al di là  dei grandi profili intellettuali del Novecento – già  analizzati in un saggio controcorrente come Past Imperfect o in The Burden of responsability: Blum, Camus, Aron and the French Twentieth Century –, e al di là  delle potenti correnti ideali che attraversarono un secolo tumultuoso, quel che cattura il lettore di oggi è il disincanto ironico con cui Judt ritrae le convenzioni accademiche intercettate a Cambridge e a Oxford («per essere ben introdotti bisogna saper conversare senza aggressività , avere un’aria ben calibrata di noncuranza»), la spocchia dei savants francesi («petto incavato e ipertrofia dell’ego») e il conformismo progressista di Berkeley nel campo più distorto della storia sociale («ma come si fa a ridurre la Rivoluzione francese a una rivolta di genere?»), un “territorio intellettualmente disonesto” in cui però egli stesso era rotolato per colpa di un amore sbagliato. E certo non è sospettabile di prudenza quando liquida le star dell’opinionismo contemporaneo, dall’ubiquo Zizek («in realtà  non esiste») al commentatore del New York Times David Brooks («non sa nulla») all’influente firma di Thomas Friedman («la sua posizione sulla guerra in Iraq fu spregevole»), tutti intellettuali globali di cui sospetta l’inconsistenza.
Ma qui siamo già  scivolati nel nuovo secolo, e Judt sa bene che quelli come lui sono una razza minacciata dall’estinzione. «Affidiamo un messaggio alle onde nella tenue speranza che la bottiglia venga raccolta. Ma per gli intellettuali, scrivere e parlare in piena cognizione della propria influenza limitata, è un’impresa curiosamente sterile. Eppure è il meglio a cui possiamo aspirare». Intellettuali come naufraghi, che però nella tempesta resistono. Sfidano il cataclisma ricorrendo all’eredità  più nobile del Novecento. E invocano una società  più giusta, come fa l’autore di questo saggio nella pagina che qui accanto anticipiamo. È anche questo, in fondo, l’ultimo messaggio del guerriero Judt, lanciato con caparbia dalla maschera di un respiratore.


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