I signori del mattone

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Davanti ai nostri occhi una distesa di costruzioni basse, di fango, tetti in lamiera: appare infinita. In un angolo un camion del Programma alimentare mondiale, e poi solo desolazione. Siamo nel campo profughi degli Helmandi, così detto perché accoglie famiglie fuggite dai combattimenti tra truppe Usa e taleban nella provincia meridionale di Helmand.

Il campo accoglie circa mille famiglie e tremila bambini, spiega Abdel Jabar, direttore del campo fin dalla sua apertura cinque anni fa. Ha un’unica scuola, insufficiente, e una clinica che però non garantisce una vera copertura medica delle tante patologie che affliggono la comunità . Vediamo fogne a cielo aperto su cui saltano i bambini, sporchi e impolverati. Ci sono solo cinque fonti d’acqua potabile.
«Il campo è in continua espansione. Se i bombardamenti americani non cesseranno, gli sfollati continueranno ad arrivare. Questa è l’unica zona destinata dal governo ai profughi». Una piccola folla di curiosi ci accompagna nella nostra breve visita. Bibi Wala proviene dal villaggio di Sanghin ed è qui solo da un anno. Ha due mogli e 10 figli. «Sono fuggito con la mia famiglia a causa della guerra. Dieci membri del mio clan sono morti. La mia seconda moglie ha perso tutte e due le braccia dopo l’ennesimo bombardamento aereo. Non riesco ad avere le protesi, non mi permettono di uscire dal campo per andare a un vero ospedale e qui non si vede nessun medico». E’ arrabbiato con Karzai e gli americani. «La gente non è sicura. Gli americani se ne devono andare. Se cessassero i combattimenti, io riprenderei la mia famiglia e tornerei a casa mia».
Pir Mohammad è da cinque anni al campo con la moglie e quattro figli. «Ero meccanico, lavoravo tanto. Ho dovuto lasciare tutto quando la mia casa si è trovata in mezzo ai combattimenti tra gli americani sulle colline e i taleban nascosti dietro una fila di alberi alle spalle del mio quartiere». Ce l’ha con tutti. «I taleban ci impedivano il passaggio. Gli americani non hanno mai smesso di bombardarci. Che se ne vadano. Io voglio tornare nel mio villaggio». Shah Bibi è del villaggio di Grick. Famiglia numerosa, faceva il contadino a cottimo. «Ero felice. Ma la guerra mi ha ucciso quattro parenti. Sono qui da tre anni». La moglie gesticola, sembra maledire qualcuno. «Gli americani ci hanno distrutto la casa. Hanno bombardato la zona e tutta la mia tribù è fuggita. Non ho più loro notizie. Vivo in queste miserabili condizioni».
Mohammad Nabi è qui da quattro anni con moglie e sette figli. «Ero un operaio comune. I bombardamenti hanno ucciso una delle mie figlie». Parla pacatamente: «Karzai ha la precisa responsabilità  di garantire la sicurezza del paese. Gli americani potrebbero anche restare, ma hanno cominciato a bombardarci e non si sono più fermati. Quindi, meglio che se ne tornino a casa. I taleban? Sono come gli americani, hanno distrutto le nostre vite, hanno strappato i figli alle loro famiglie e li hanno armati. Che spariscano anche loro».
I combattimenti tra truppe americane e taleban fanno di Helmand e Kandahar le province più colpite dal punto di vista economico, e l’emigrazione forzata della popolazione in zone più sicure aggrava le cose.
«Warlords» e palazzinari
Per raggiungere il quartiere di Shahrak Khorasan bisogna arrampicarsi sulle colline che circondano la città . E’ una zona poverissima: le strade non sono asfaltate, manca l’elettricità  e l’unica scuola elementare funziona a singhiozzo a causa dell’assenteismo dei maestri, sottopagati e da mesi senza stipendio. «Però a solo tre chilometri da qui c’è uno dei quartieri più ricchi e più sorvegliati di tutta Kabul» mi spiega Beena, attivista dell’Associazione delle donne rivoluzionarie afghane (Rawa).
La sperequazione economica è una piaga che si è abbattuta sull’Afghanistan nonostante, o meglio: proprio a causa di tutti i miliardi di dollari piovuti nel paese con l’occupazione. «Bisogna guardare ai flussi di denaro, dai paesi donatori ai signori della guerra», dice il dottor Hafizallah, del partito Hambastaghi (Solidarietà ). «Pensate ai 900 milioni di dollari letteralmente spariti dalla Kabul Bank, bruciati da individui quali Karzai e il suo vice Fahim in non meglio definiti appalti e commesse, probabilmente finiti nelle loro tasche o rientrati attraverso vari canali nei paesi donatori. Il fallimento della banca è ricaduto sulle spalle del popolo afghano, che lo sta pagando in modo salato. E ancora, tutti i soldi dati dagli americani per garantire la sicurezza dei convogli della Nato sono stati intascati da Rahim Wardak, potente comandante locale, e suo figlio. Nella provincia orientale di Badakhshan il governatore riesce ad assicurarsi tutte le commesse per la ricostruzione tramite la copertura di un’impresa edile. Ma questo signore è un famoso e potente contrabbandiere di droga. A Mazar-i-Sharif Mohammad Atta Nur, un tristemente noto comandante del periodo della guerra civile dei mujaheddin e ora governatore della provincia, ha comprato a costo stracciato o addirittura sequestrato l’80 per cento delle terre, dove poi ha costruito supermercati e centri commerciali. In parte le ha suddivise in piccoli lotti che riaffitta ai contadini a prezzi esorbitanti».
L’Afghanistan è un paese di una povertà  disarmante, al sesto posto dell’indice degli stati falliti, ma a Kabul spiccano vere e proprie cittadelle di recente costruzione, in evidente contrasto con la miseria che dilaga in gran parte dei quartieri della capitale. «Quegli appartamenti se li può permettere solo chi lavora per le ong straniere, guadagnando fino a 2.000 dollari al mese, o i nuovi uomini di affari afghani», continua Beena. «Non una classe ancora, ma un gruppo di nuovi ricchi. I terreni sono di proprietà  di parlamentari o ministri nell’orbita dei vari signori della guerra. I loro ruoli decisionali gli permettono di arricchirsi e consolidare il proprio potere finanziario e politico».
Come Abdul Rasul Sayyaf, famigerato jihadista (e oggi influente deputato) che possiede i terreni nella zona settentrionale di Kabul, sulla strada che porta alla provincia di Parwan, dove ha fatto edificare immobili di lusso dal gusto kitch. Il dottor Hafizullah ce ne aveva parlato: «Gli appartamenti vengono rivenduti a prezzi pazzeschi per il paese. Un 100 metriquadri costa tra i 100.000 e i 200.000 dollari. Ma Sayyaf non è il solo a speculare in questo campo. Khalili, uomo forte del partito Wahdat ndr] ha acquistato le terre di un’altra zona di Kabul a 6 dollari a metro quadro: poi le ha divise in lotti che rivende a 1.000 dollari a metro quadro».
Il potere finanziario rende sempre più potenti, aggressivi e quasi intoccabili i signori della guerra. Gli Usa non interferiscono, anche se sparano a zero contro la corruzione imperante nel sistema politico afghano, e ammoniscono Karzai a combatterla. «Ma Stati Uniti e alleati perseguono la difesa dei propri interessi nel paese, ecco perché fin dall’occupazione sovietica hanno finanziato i signori della guerra», aggiunge Hafizullah: «Dialogare con le formazioni democratiche e nazionaliste non è mai stato nei loro piani».
Spostandoci per Kabul, in prossimità  di incroci e rotonde vediamo gruppi numerosi di uomini, in piedi o seduti sui calcagni. Sono lavoratori a giornata, aspettano i caporali sperando di essere scelti. La paga giornaliera è di 4 dollari.
* Cisda – Roma


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