Hollande, la sinistra di governo e il difficile lavoro dell’equilibrista
Nel maggio scorso, il partito socialista, con alleati comunisti, radicali e verdi ha conquistato la maggioranza assoluta all’Assemblea e al Senato e, con rare eccezioni, è al comando delle regioni e nelle maggiori città . Il sindacato — almeno finora — è stato spettatore benevolo, nonostante il livello record di disoccupati e di chiusura d’imprese. La destra è lacerata e minoritaria.
Ogni sinistra, e ovviamente ogni forza politica, sognerebbe una condizione del genere, che tuttavia, almeno in Francia, non basta né a mantenere il consenso né a facilitare l’azione di governo. Verdi ed estrema sinistra tengono un piede nella maggioranza e uno all’opposizione, soprattutto quando si tratta di contestare misure ritenute «liberali» (per quanto abbastanza lontane dalle riforme strutturali di cui la Francia avrebbe urgente bisogno) o quando il governo rinvia impegni e promesse, quali ad esempio la fiscalità ecologica, la discussione sul nucleare e sulle fonti alternative, l’idea d’introdurre un’ampia quota proporzionale, molto più del 10 per cento di cui si discute oggi.
Le diverse correnti e anime del partito socialista — alcune con un rapporto culturale problematico nei confronti dell’impresa, del ruolo dello Stato e del mercato — costringono Hollande e il suo governo a un lavoro da equilibrista. I propositi di riforme — dai tagli della spesa pubblica al risanamento di bilancio, dal costo del lavoro alle misure per la competitività — vengono negoziati al ribasso, con concessioni ideologiche (le intoccabili 35 ore) e senza aggredire le distorsioni del sistema di protezione sociale. Anzi, le nuove tasse, che colpiscono anche i ceti medi, servono a preservarlo. Il risultato paradossale, nonostante la maggioranza democraticamente «sovietica», sono la caduta di consenso, la delusione degli economisti e della sinistra liberale e le critiche abbastanza generalizzate della stampa. Sei mesi dopo il trionfo, la prospettiva ideale di cambiamento non si è ancora vista. La «conservazione» del sistema accontenta la base elettorale tradizionale, l’impiego pubblico e il popolo dei funzionari, gli assistiti e gli intellettuali, ma non soddisfa il bisogno di rinnovamento della maggioranza dei francesi, anche di sinistra. Quel bisogno di cambiamento e di modernità compreso a suo tempo, ma sperperato, dall’ex presidente Sarkozy. Può essere che Hollande, oggi considerato titubante e inadeguato da diversi osservatori, riesca con la sua «flemmatica determinazione» a non ripetere le contraddizioni dell’epoca Mitterrand e a risparmiare alla sinistra le successive sconfitte in serie che hanno consegnato per 17 anni l’Eliseo alla destra. La crisi europea, che colpisce duramente anche la Francia, di certo non lo aiuta. Le auspicate prospettive di crescita potrebbero tuttavia accompagnare la seconda parte del suo mandato. Nei primi sei mesi, la nota positiva riguarda la politica europea: l’essere riuscito a costruire nuove alleanze, più ampie rispetto alla rigidità dell’asse franco-tedesco e a modulare in parte l’intransigenza di Berlino sui conti pubblici. Ma il rispetto degli impegni europei presi anche dalla Francia verrà raggiunto aumentando le imposte, più che con il «dimagrimento» dello Stato.
Il caso francese racconta dunque quanto sia complicato per una sinistra di governo tenere insieme efficacia economica, solidarietà e sostenibilità dei conti pubblici senza rinunciare alle conquiste sociali, ma adattandole alle nuove sfide dei mercati globali. Alleanze e promesse elettorali possono portare alla vittoria, ma non sono condizioni sufficienti per mantenere il consenso. La visione interclassista della società , su cui si esercita la capacità di attrazione dei partiti, appare superata rispetto a una più larga alleanza di segmenti sociali attratti dalla prospettiva di cambiamento, ma con interessi talvolta divergenti. L’opinione pubblica è volatile. Molti osservatori ricordano a Hollande la ricetta di Gerhard Schroeder che riformò in profondità il welfare e il costo del lavoro in Germania, ma sembrano dimenticare che l’ex cancelliere perse le elezioni. I meriti di un leader valgono per la storia, un po’ meno per la strategia del consenso politico.
Negli Usa, si è visto come la maggioranza vincente sia anche una somma di minoranze (sociali, etniche, culturali, religiose, sessuali, anagrafiche) che si sono riconosciute in un progetto, oltre l’adesione al partito democratico.
Prima di sapere se andrà con Vendola o con Casini, anche il Pd dovrebbe porsi il problema di costruire il consenso nell’Italia di oggi. Oltre le alleanze elettorali e le possibili vittorie di domani che, come i sogni, possono svanire all’alba.
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