GUERRE IMPERIALI
Ma posti di lavoro e benessere sociale non sono funzione solo del ciclo e della politica economica. Sempre più dipendono dal modo in cui l’America sta al mondo. Dalle relazioni politiche, commerciali e finanziarie con il resto del pianeta, Cina in testa, che non accetta più il Washington consensus e non dimentica che la crisi in corso è nata a Wall Street. Ma anche dalle guerre che l’America deve o dovrà combattere, anche se ne farebbe volentieri a meno. A cominciare dalla guerra al terrorismo, giunta al suo undicesimo anno. Per continuare con il possibile attacco preventivo all’Iran, d’intesa o meno con Israele, che Obama farà di tutto per evitare ma che potrebbe scoppiare per decisione di Gerusalemme e per il rifiuto iraniano di negoziare sul serio.
La differenza fra politica interna e politica estera è che l’agenda domestica si può largamente progettare, mentre il mondo è troppo vasto e imperscrutabile per chiunque pretenda di modellarlo. Fosse anche il presidente degli Stati Uniti. Specialmente un leader al secondo mandato, eletto da un paese polarizzato fra destra nostalgica della superpotenza solitaria e solipsista che fu – reazionaria in casa e bellicosa nel mondo – e centro-sinistra che vorrebbe curare il malandato orto di famiglia e riportare a casa quanti più soldati possibile. Con le casse pubbliche semivuote e con un Congresso spaccato fra Camera in mano a repubblicani spesso estremisti e Senato a maggioranza democratica limitata. L’unico non indifferente vantaggio rispetto al primo quadriennio, è che Obama non può essere riconfermato, sicché deciderà senza farsi condizionare da pedaggi elettorali.
Ad oggi, l’agenda mondiale del presidente reca tre comandamenti. Primo: stabilire che cosa fare o non fare con la Cina. Secondo: decidere se attaccare o meno l’Iran, con o senza Israele. Terzo: adattarsi al terremoto in corso nella galassia islamica – le ormai autunnali “primavere arabe” – per cercare di influenzarlo e modulare di conseguenza la guerra al jihadismo, basso continuo dell’impegno militare a stelle e strisce. Con un occhio all’eurocrisi, se dovesse rimettere in questione non solo la stabilità sociale e geopolitica europea ma la ripresa dell’economia americana.
Quanto alla Cina. A Pechino si tifava Romney. Perché Obama appare ai “mandarini rossi” come un leader inaffidabile, che finge di dialogare mentre riarma Taiwan o li attacca sulla politica ambientale. Peggio: minaccia di trattare la Repubblica Popolare come un tempo l’Unione Sovietica, strigendo attorno a Pechino insieme agli alleati e a veri o presunti amici asiatici – Australia, Giappone, Corea del Sud, Vietnam, India – una cintura di sicurezza destinata a contenerne le ambizioni. Peraltro, oggi si apre il cruciale congresso del Partito comunista cinese, all’insegna di una lotta di potere che investe la nomenklatura e che ridefinirà l’approccio agli Stati Uniti e al mondo. Nei prossimi mesi, quando Obama avrà incontrato Xi Jinping, suo neo-omologo designato, potremo capire se i numeri uno e due al mondo sono destinati a cooperare o a scontrarsi.
Sul fronte Iran, Obama farà di tutto per non impelagarsi in un’avventura bellica dalle conseguenze potenzialmente disastrose. Una nuova guerra del Golfo rischierebbe di soffocare i sintomi di ripresa nell’economia americana, di stroncare la crescita asiatica, di sprofondare l’Europa nella depressione e nel caos. In questi ultimi mesi emissari della Casa Bianca hanno cercato di sondare la disponibilità di Teheran a un compromesso sul suo programma nucleare, in cambio della fine delle sanzioni e della riammissione della Repubblica Islamica nel circuito economico e politico internazionale. Ma Netanyahu, probabilmente il leader mondiale meno entusiasta del mancato cambio della guardia alla Casa Bianca, resta convinto che di pasdaran e ayatollah Israele non abbia il diritto di fidarsi. Le probabilità di una guerra che segnerebbe il secondo mandato di Obama, e non solo, paiono ad oggi superiori alle speranze di pace.
Intanto, la guerra al terrorismo continua. Il maggior successo del comandante in capo Obama è stata l’esecuzione di Osama bin Laden, insieme al ritiro dall’Iraq e al contenimento delle perdite in Afghnistan. Ma le conseguenze impreviste delle “primavere arabe” stanno aprendo nuovi fronti bellici. Ad esempio in pieno Sahara, dove una manciata di terroristi narcotrafficanti ha piantato il vessillo di al-Qa’ida nel Mali settentrionale per farne una base del jihadismo globale. Questa almeno è la visione dominante a Washington e a Parigi (ex capitale coloniale), sancita dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che ha dato via libera a una guerra di riconquista del Sahara perduto, teleguidata da Stati Uniti e Francia. Più in generale, le convulsioni che stanno scuotendo i paesi arabi e islamici costringono Obama a inseguire gli eventi. A conferma che Washington non è in grado di il determinare il futuro del Medio Oriente.
Vent’anni fa Henry Kissinger stabilì i termini del dilemma strategico Usa dopo la guerra fredda: «Viviamo l’epoca in cui l’America non può dominare il mondo né ritrarsene, mentre si scopre a un tempo onnipotente e totalmente vulnerabile». Undici anni dopo l’11 settembre, dal suo studio ovale Obama, a dispetto dell’irrinunciabile grandiosità retorica, continua a scrutare l’orizzonte attraverso quel prisma. L’audacia della speranza convive con la cognizione della realtà .
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