by Sergio Segio | 23 Novembre 2012 7:00
GERUSALEMME — Super Morsi. Tutto in pochi giorni: ferma il massacro dei bambini di Gaza e i razzi su Israele, strappando una tregua impensabile (e già che c’è, trova il tempo di cacciare un suo ministro per la strage dei bimbi egiziani travolti dal treno); incassa la stima di Obama e della Clinton (e già che c’è, i miliardi del Fondo monetario); nomina un nuovo procuratore generale al Cairo, facendo fuori quello dei tempi di Mubarak (e già che c’è, rende inappellabili tutte le decisioni prese finora). Che settimana, Fratelli. Un nuovo leader s’aggira per il Medio Oriente. Esaltando la diplomazia obamiana e impensierendo gl’israeliani, preoccupando i satrapi arabi e dispiacendo a molti della sua Fratellanza musulmana che gli chiedono di continuare il «jihad contro il sionismo», Super Morsi si gode l’ingresso nel club della politica che conta e nel nuovo palazzo del potere che si sta costruendo: il regno d’un «nuovo faraone», non esita a definirlo Mohamed El Baradei, suo avversario politico.
La tregua tiene, e questo è il successo di Morsi che più interessa al mondo. Ieri, a Gaza è stato un giorno di festa nazionale, bandiere verdi (Hamas) e gialle (Fatah) insieme, i jihadisti filoiraniani a rosicare e il leader della Striscia, Ismail Haniyeh, a capitalizzare il nuovo ruolo d’interlocutore filosunnita, «gli americani hanno cambiato linguaggio», garantendo che «non saremo mai più invasi». L’accordo è solo un mezzo foglio stampato, appeso a contenuti ancora tutti da definire: aprire o no i valichi? E quali? E quanto? E prima o dopo le elezioni israeliane di gennaio? E che fare del blocco navale? Bibi Netanyahu cerca di far digerire alla destra l’intesa con Hamas, i terroristi coi quali «non si può trattare»: arresta l’autore della bomba all’autobus di Tel Aviv, un arabo israeliano legato a Hamas, riapre le scuole scampate ai razzi, dà l’ok alle primarie dei partiti. Ma ciò non basta a quei riservisti richiamati alle armi che ora su Facebook definiscono il premier «perdente», né all’alleato Avigdor Lieberman che dietro le quinte l’accusa di non aver inferto il ko decisivo. Le truppe piano piano si ritirano, anche se il ministro Ehud Barak avverte che alla minima violazione della tregua «sapremo cosa fare» e cerca di spiegare il perché del dietrofront: «Se fossimo entrati a Gaza, avremmo dovuto rovesciare Hamas e occuparla per anni».
Bibi pareggia, scrive la stampa israeliana che lo detesta: chiude rapido la sua prima guerra, riapre un insperato canale con la Casa Bianca, si gioca la rielezione in vista dello scontro (vero) con l’Iran, spera che Morsi rimandi veloce a Tel Aviv l’ambasciatore egiziano, richiamato dopo l’attacco su Gaza. Non è detto che il «nuovo faraone» lo faccia subito, perché ora ha da fronteggiare problemi interni non facili: piazza Tahrir torna a rumoreggiare, dopo il «colpo di Stato» (parole dell’opposizione) che ieri gli ha attribuito poteri straordinari, come l’inappellabilità davanti ai giudici d’ogni decreto presidenziale e di qualunque dichiarazione costituzionale. Con la calda retorica della sua fede e il freddo pragmatismo della sua formazione californiana, Morsi blinda l’assemblea costituente che sta ridisegnando l’Egitto e, insieme, la Camera alta. A ottobre non era riuscito a silurare Abdel Mahmoud, il procuratore del Cairo, cavalcando la protesta popolare per le assoluzioni degli sgherri di Mubarak nel processo alla «battaglia dei cammelli», una delle repressioni più dure della rivoluzione egiziana. Stavolta, il colpo gli è riuscito. Promette che «la vera vendetta del sangue dei martiri» comincia ora: e il Cairo non è Gaza.
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