Gaza, aumentano i raid Colpiti anche bambini
ASHDOD (Israele) — Sui moli del porto, i russi che giocano sempre a scacchi non si vedono più. Le mall sono sbarrate, i negozi svuotati, gli autobus fermi. Oggi aspettavano una crociera dall’Italia: è arrivata un’email per comunicare che la nave andrà in Grecia o in Turchia. Ad Ashdod città morta, 25 km da Gaza, l’unica cosa viva sono le sirene quando piovono i razzi. Alle due del pomeriggio ne arrivano una ventina, uno ogni due minuti. Cadono su una scuola deserta, su un taxi, su un palazzo di otto piani, sui campi… «Guai se Netanyahu firma una tregua adesso, bisogna andare là dentro fino in fondo — indica verso la Striscia il sindaco, Yehyel Lasri, ormai un routinier della corsa trafelata al rifugio —, il mondo deve sapere che cosa sopportiamo!…».
Si sa: da Obama all’Europa, in questa parte di mondo, non c’è dichiarazione che non solidarizzi col «diritto d’Israele a difendersi». Da ieri, però, il presidente americano e il ministro degli Esteri britannico, William Hague, hanno cominciato ad aggiungere un’altra frase che oggi, probabilmente, verrà ripresa dai ministri Ue a Bruxelles: sarebbe «preferibile» evitare un’escalation, dice la Casa Bianca, «non solo per la gente di Gaza, ma anche per gl’israeliani». Per essere più chiari: «Abbiamo avvertito Israele — spiega Hague — che un attacco di terra gli farebbe perdere gran parte del sostegno internazionale che ha raccolto in questa situazione».
Entrare, non entrare. La guerra via terra è una chiacchiera. Bibi Netanyahu ha mobilitato un’armata di riservisti sette volte più imponente di quella usata nell’offensiva, durissima, di quattro anni fa: «Se è un bluff — scrive l’editorialista Nahum Barnea —, potrei suggerire alternative meno costose per far pressione su Hamas». Tutti richiamati e intanto posteggiati, in attesa d’eventi.
Quali? Il tavolo del Cairo, al quale gl’israeliani hanno finito per sedersi con un loro inviato speciale, ma con aspettative scarse. Troppo lontane le parti, che secondo logica mediorientale non possono perdere la faccia in una tregua repentina, nonostante Hamas sostenga che «al 90 per cento c’è ormai un accordo» e scarichi sul nemico la colpa di un eventuale fallimento. C’è troppa diffidenza anche verso i mediatori egiziani, turchi, qatarini: gl’israeliani non li considerano neutrali. «Ci vorrebbe un Bill Clinton», butta lì velenosetto l’ex avversario di Obama, il senatore John McCain. Nell’attesa, Hamas incassa successi diplomatici dal mondo arabo, e per una volta non solo a parole: l’appoggio aperto del presidente egiziano Morsi, i soldi del Golfo, le armi dall’Iran, l’imbarazzato silenzio di Abu Mazen. «Non siamo più come nella guerra del 2008 — è il messaggio del turco Erdogan all’inviso Bibi —. Le circostanze intorno sono molto diverse e te ne devi rendere conto».
Consapevole o no, Netanyahu continua a bombardare: si va verso «una significativa espansione dell’operazione», dice, e non ci sarà negoziato finché Hamas non smette di lanciare missili. Altro che tregua, la guerra somiglia sempre più a quella del 2008.
In una domenica nera, il giorno più pesante, muoiono ventisei palestinesi: donne, vecchi, bambini. Ai cento razzi nelle ultime ventiquattr’ore, cinque su Tel Aviv, ai sette feriti israeliani, agli attacchi di Anonymous su migliaia di siti israeliani, l’aviazione risponde con un diluvio di fuoco. Colpiti due palazzi del Media Center, feriti otto giornalisti (a uno viene amputata una gamba) di troupe straniere, da Sky inglese a Russian Tv. A impressionare è la strage della famiglia di Mohamed Al-Dulu, un caposcorta del ministero dell’Interno di Hamas che viveva nella zona di Sheikh Radwan: sotto tre piani di macerie restano in undici, e quattro sono bambini piccoli con le mamme, due sono anziani di 80 e 70 anni. «Un massacro orribile che non resterà impunito», promette il premier gazali Ismail Haniyeh. «Colpa di Hamas — replica il vicepremier israeliano Moshe Yaalon — che lancia i suoi razzi usando case, ospedali, moschee come scudo. Con un nemico così, difficile evitare i civili».
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