Foto di gruppo in tempi di crisi

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La sig.ra Là³pez ha dichiarato: «Non si può immaginare come ci si sentiva stando in quell’atrio. È una storia che non si può raccontare realmente, perché non è la stessa cosa come viverla.» Non ci sono parole per dire emozioni impossibili da elaborare nell’immediato, che mai ci saremmo aspettati di vivere. Dopo decenni di una certa tranquillità  sul piano delle condizioni materiali di vita precipitare improvvisamente nell’insicurezza più totale è un trauma terribile, indicibile. Ci si immerge in un senso di irrealtà  che rende enorme la distanza da chi non si trova nella stessa situazione ed esaspera la difficoltà  di comunicare i propri vissuti a se stessi e agli altri. Nella direzione opposta la paura di chi è ancora salvo di subire la stessa sorte rischia di accentuare la divisione emotiva e paralizzare un’elaborazione collettiva del lutto appropriata. Nulla sostiene di più l’interesse di tutti che la solidarietà  che si sviluppa dalla condivisione del dolore in tempi di crisi. Nella più intensa delle foto in bianco e nero che accompagnano il servizio del NY Times un gruppo di persone è riunito attorno a delle piccole candele di lutto poste su un freddo pavimento di mosaico che risplende sotto la loro luce. Sono in lutto per un uomo di 53 anni che a Granada si è impiccato poche ore prima che venisse sfrattato. Sagome nere in parte indistinte, con alcuni volti in chiaro ma non definiti. In primo piano due giovani, un uomo con gli occhiali e una donna con un cappellino da baseball, dalle sembianze sfumate sono indaffarati a sistemare le candeline sul pavimento come si fa con i fiori nelle «infiorate». La foto è messa a fuoco su un uomo piegato sulle ginocchia nell’atto di poggiare con la mano sinistra una candelina dopo averla appena accesa. L’espressione del suo volto illuminato in chiaroscuro di profilo rivela dolore e decoro emotivo. Lo sconosciuto con i lineamenti appena contratti dalla tristezza sembrerebbe che guardi il vuoto se qualcosa nel suo sguardo non ce lo rivelasse immerso in ricordi personali, intimi. Il polso forte e la mano grossa sembrano di un lavoratore, come il suo vestire. Forse è un parente del morto, un compagno di sventura destinato anch’egli a essere sfrattato, un vicino di casa, un passante compassionevole. Con il piede sinistro poggiato sul pavimento a pianta intera sembra sul punto di accasciarsi, con il piede destro che poggia solo con la punta sembra in procinto di elevarsi. Questa configurazione esemplare di un uomo in cui il dolore convive con il desiderio di riscatto, espressione di una dinamica emotiva di gruppo (e solo apparentemente figlia del caso) che il fotografo ha colto in modo mirabile, ci dà  l’essenziale dell’elaborazione della perdita: è l’identificazione profonda con il compagno perduto, che toglie noi e lui dall’oblio, che ci permette di tornare a vivere


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