by Sergio Segio | 6 Novembre 2012 7:26
Esattamente un anno fa, alla fine ottobre del 2011, si è svolto a Granada, in Spagna, il Primo congresso mondiale delle donne gitane. Oltre duecento donne romanì erano arrivate nella città andalusa da mezzo mondo (Francia, Portogallo, Olanda, Grecia, Finlandia, Palestina, Colombia) per discutere della loro condizione e per affermare la volontà di lottare contro il sessismo interno, ma anche esterno, alla loro comunità , e contro il razzismo. Il prossimo Congresso mondiale si terrà tra un anno a Helsinki, in Finlandia. Tra gli organizzatori dell’evento figurano il Consiglio d’Europa, il governo finlandese e il Segretariato generale per la popolazione gitana del paese ospitante. Una prima riunione organizzativa si è tenuta qualche giorno a Bucarest per definire le linee-guida del convegno, i criteri di selezione e il numero delle partecipanti.
Qualcosa sta dunque cambiando nel mondo rom. Numerosi gruppi e associazioni militanti – in particolare di donne – stanno nascendo, in Spagna ma non solo, per rivendicare diritti e visibilità , per cercare di cambiare gli equilibri della loro comunità come dell’intera società .
Una delle opinioni – diciamo pure dei pregiudizi – più diffusi sul popolo rom è che si tratti di una realtà omogenea, tutta uguale e come tale statica e immutabile. Eppure non è così. Sappiamo che tutto ciò è proprio dei meccanismi di oppressione, di discriminazione, delle logiche razzializzanti e stigmatizzanti che creano un “altro” differente da sé, riducendolo a un blocco tutto omogeneo, identico e senza sfaccettature. Per il pensiero razzista (come per quello sessista e omofobico, del resto), i diversi sono tutti uguali, marcati da caratteri, qualità e comportamenti considerati come specifici e originari. Cosi, nel caso dei rom, tanto gli stereotipi romantici (popolo misterioso, folkloristico e orientale di musici e danzatrici) quanto gli stereotipi negativi (popolo di delinquenti, di ladri, che vive in sudice baraccopoli) pretendono di fissare una volta per tutte caratteri e comportamenti “naturali” di questo popolo.
Contro questi dffusi pregiudizi e contro questa logica persistente di stigmatizzazione e di discriminazione lottano i numerosi movimenti rom, oggi diffusi in molti paesi europei e latino-americani e attivissimi anche via internet, in particolare sui network sociali come Facebook, attraverso i quali possono entrare in contatto e scambiarsi facilmente messaggi. Sì, perché l’attivismo rom esiste, con le sue rivendicazioni: eguaglianza di diritti, lotta contro la romafobia e l’antigitanismo.
Il primo aspetto della loro battaglia consiste nella costituzione di gruppi e organizzazioni come soggetti attivi della militanza, nella costituzione cioè di un attivismo rom plurale e differenziato. In Spagna, esiste per esempio una giovane organizzazione che si chiama Ververipén1 – roms para la diversidad – che si batte per difendere e rendere visibile la diversità e l’eterogeneità (di scelte, posizioni, comportamenti… anche in materia di sessualità ) interna alla comunità rom. Questi giovani lanciano una sfida alle loro comunità , cioè quella di riconoscere questa molteplicità che intimamente le attraversa, ma soprattutto alla società riduce il popolo rom a una realtà piatta e omogenea. «L’immagine che si trasmette da parte della società maggioritaria – leggiamo in un testo elaborato da Ververipén – è un’immagine piana, senza profondità , che tende a negarci un volto e una presenza umana; ci “cosificano” trasmettendo l’idea, conscia o inconscia, che siamo tutti più un problema che un gruppo umano, relegandoci, nella dimensione sociale, al ruolo di delinquenti, nella dimensione economica a quello di competitori e, nella dimensione culturale, al ruolo di esseri esotici, misteriosi e selvaggi». Questi giovani vogliono far sentire la propria voce, anzi, ancor di più, come mi spiegano Demetrio e Kurro di Ververipén in uno scambio di e-mail, «agitare coscienze e generare nuove idee».
Prova della ricchezza di prospettive e dell’effervescenza del nuovo attivismo rom è l’organizzazione di movimenti femministi che stanno costituendo una rete internazionale di donne romanis portatrici di un nuovo pensiero e di una pratica sociale e politica che lotta per creare nuovi spazi di cittadinanza. «Siamo state zitte per tanto tempo, ora vogliamo parlare di tutto», afferma una di queste militanti femministe gitane. Vogliono rivendicare i loro spazi, dibattere su diritti umani, eguaglianza, partecipazione politica, sessualità , come ricorda Alexandrina Moura da Fonseca, che dirige l’associazione alicantina di donne romanis Arakerando.
Queste donne vogliono essere presenti e attive di fronte alle sfide del secolo XXI: lottare contro il sessismo e il machismo, sia che provengano dalla loro comunità che dal resto della società , e contro il diffuso razzismo antigitano che le relega a un ruolo subalterno. «Se la storia del popolo gitano è stata muta, le donne gitane sono state figure invisibili che non hanno mai avuto il diritto di esprimersi», afferma Beatriz Carrillo de los Reyes, presidenta dell’associazione andalusa Fakali – donne gitane universitarie. Ma ora le cose stanno cambiando. «Ora è il nostro momento, dobbiamo rivendicare potere, stare nei centri di potere, essere lì», aggiunge un’altra attivista. L’obiettivo principale di questi collettivi di donne è la lotta per la visibilità e l’idea che sono proprio loro, le donne romanis, a essere il «motore del cambiamento» in seno allo stesso popolo gitano.
Il femminismo gitano sta muovendo i suoi primi passi, ma in modo già fermo e deciso. Ecco le sue principali rivendicazioni, affermate nel Primo congresso delle donne gitane e ribadito dal comitato organizzatore della prossima conferenza mondiale: azione collettiva volta alla presa di coscienza, di responsabilità e di decisioni in materia di diritti sociali) delle donne romanis dentro e fuori la loro comunità ; uguaglianza di genere; visibilità della loro condizione e promozione della comunità gitana; educazione e inserimento delle donne romanis nel mercato del lavoro; lotta contro il razzismo e affermazione della loro solidarietà con l’intero popolo rom; partecipazione politica, militanza e cittadinanza.
Secondo questa versione del femminismo, la rivendicazione dell’eguaglianza delle donne non è separabile dall’affermazione della propria condizione specifica di romnja, in quanto la discriminazione e la subalternità alle quali si oppongono è effetto congiunto dell’oppressione maschile e del razzismo. Di quest’ultimo, esse sono vittime tanto quanto gli uomini della loro comunità . «Le rivendicazioni delle donne gitane – si legge in un testo elaborato nel 2002 da un’associazione catalana in occasione di una giornata di discussione su questi temi – non vanno solo in senso femminista, ma chiedono il rispetto e l’uguaglianza per tutto il loro popolo. Le donne gitane non intendono il superamento delle loro diseguaglianze e della loro promozione senza la promozione del popolo gitano in generale» (Jornada Dona Gitana, 2002).
Forse i movimenti rom, e in particolare quelli delle donne, si stanno finalmente avviando a divenire i futuri (forse inattesi) protagonisti del dibattito politico, sociale e culturale del XXI secolo.
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