by Sergio Segio | 9 Novembre 2012 8:16
BERLINO — Crolla l’export, e il consumo interno non basta proprio per nulla a compensarne la caduta. Crolla per il sesto mese l’indice di fiducia Ifo degli investitori. Uno dopo l’altro, i giganti del Made in Germany lanciano profit warning, allungano le ferie, accorciano l’orario di lavoro, o preannunciano brutali piani di tagli ai costi. Autunno triste, e vigilia di Natale cupa, per la prima potenza europea. «Farà male anche a noi, la locomotiva d’Europa non ce la fa più a trainare il convoglio», sentenziava ieri l’analista Tobias Kaiser sull’insospettabile Die Welt, quotidiano liberalconservatore di qualità vicino al governo. Addio ai sogni d’essere fortezza invulnerabile grazie all’export di eccellenza: il gelo della crisi, come confermato anche da Mario Draghi, è arrivato in Germania. Troppo a lungo Berlino ha ignorato il monito che l’Ocse aveva lanciato fin da agosto: «State scivolando nella recessione ». La recessione ormai bussa alle porte della Bundesrepublik, con cifre che — pur con produttività , competitività e livello di vita da sogno rispetto a Italia o Francia — fanno paura.
La caduta degli ordinativi dell’industria è spaventosa: meno 3,3% a ottobre rispetto a settembre; a settembre meno 3,6% rispetto all’agosto della pausa estiva. Su base trimestrale (terzo trimestre) il crollo è del 2,3%. «La debolezza delle economie europee, ma anche il rallentamento mondiale, fa sentire le sue conseguenze sulla produzione industriale tedesca, che nei prossimi mesi in tendenza s’indebolirà ancora», ammette il ministero dell’Economia.
La domanda globale del made in Germany è diminuita del 4,5%, e dalla sola eurozona del 9,6%. La reazione a catena perversa riduce gli affari tra aziende tedesche: meno 1,8%. «Il rischio recessione sta aumentando per la Germania», avverte Carsten Brzeski, capo economista della grande banca
ING. Secondo l’Unione di industrie e camere di commercio tedesca (Dihk), il Prodotto interno lordo quest’anno crescerà al massimo di un 1%, e l’anno prossimo di non oltre lo 0,7%. Insomma, dolori e drammi francesi o italiani si avvicinano, entrano sempre più nelle case del tedesco medio. Proprio mentre si avvicina il Natale, e a undici mesi scarsi dalle elezioni politiche federali, difficile prova per Angela Merkel.
A lungo sottovalutato, l’impatto delle brutali manovre di risanamento chieste all’Europa mediterranea, e alla stessa Francia, e l’ostinato no di Berlino a forti misure di stimolo alla crescita, si vendicano sul primo della classe dell’export. Disabituiamoci a grandi aspettative, prepariamo tagli ai costi per uno o due miliardi, ha detto previdente Dieter Zetsche, AD di Daimler. Orari accorciati in molti gruppi automobilistici, nonostante sia tuttora tedesca un’auto su due circolanti in Europa. Orario corto anche a Man, uno dei due big mondiali (con Mercedes) degli autotreni. E Siemens, il colosso multicomparto, secondo JP Morgan deve realizzare risparmi dai 4 ai 5 miliardi per salvarsi. In alcuni casi, come nelle tlc a Nokia-Siemens, la scure colpisce spietata prima delle feste: via 160 dei 1000 dipendenti. Persino il porto di Amburgo, prediletto dai cinesi di Cosco o dai coreani di Hanjin Shipping per portare le loro merci all’Europa, soffre della crisi: meno ordini, meno navi ad attraccare.
Il peso del rigore a ogni costo, la priorità ai tagli rispetto a politiche per la ripresa, curva anche le forti spalle della Bundesrepublik, il cui debito pure continua a crescere e già vola all’80% del pil, troppo più di Maastricht. Allarme anche per le banche: l’autorità di controllo BaFin ha chiesto ai maggiori istituti calcoli trasparenti sulla loro situazione, e se necessario rapidi aumenti di capitale. Deutsche Bank si adegua per prima. «E’ quasi come obbligare le banche a scrivere il testamento», commentano amari a Francoforte.
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