Elio Petri, indagine su un regista al di sopra di ogni sospetto

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«I miei eroi? Totò, Bogart e Julien Sorel», rispondeva, spiazzante, Elio Petri, il grande regista scomparso troppo giovane, trent’anni fa, ad Alfredo Rossi, l’amico e autore di un prezioso Castoro che andava scrivendo su di lui.
La domanda a cui Petri rispondeva, con la sua provocatoria ammucchiata di eroi di carta e di pellicola, era «Sei un intellettuale?». Ed Elio, l’eversivo autore di
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, di La classe operaia va in paradiso, si schermiva. No, lui era un intellettuale mal riuscito, diceva. E parlava della vera scuola che aveva fatto, lui, nato a Roma in via dei Giubbonari, figlio «unico e grasso» di un calderaio antifascista. Parlava della sua scuola «per le strade, nelle cellule del partito comunista, nei cantieri del genio civile, al cinema, al varietà , nelle biblioteche comunali», elencando i momenti di una giovinezza e di una Bildung nutrite di vita popo-lare, di esperienze incontrate per caso, di «confusione e disordine». E di due linee direttrici: quella «dell’eguaglianza tra tutti i viventi» e della lotta contro «le tracce che erano in me dell’educazione cattolica e fascista».
Petri diceva anche, in quelle stesse pagine, di non essere comunista. E non era una bugia. Perché se esser comunista voleva dire accettare la disciplina di partito, Elio Petri non l’aveva accettata. Certo non quando aveva lasciato il Pci dopo i fatti di Ungheria. Ma, diceva, «vengo da una famiglia di lavoratori, povera, se non poverissima. Ho scelto istintivamente di parteggiare per i lavoratori ». Di qui la sua poetica, i suoi film, la sua storia. E aggiungeva, premonitorio (era il 1979, lui se ne sarebbe andato il 10 novembre 1982, a soli cinquantatré anni) che «ogni cosa si fa per sfuggire all’idea della morte». E di cose ne ha fatte, Elio Petri – qui pubblichiamo alcuni documenti dall’archivio della moglie Paola – nei suoi brevi anni, sempre diviso tra la sua utopia politica e sociale e l’amarezza di chi sa vedere la realtà . Ecco dunque l’inizio precoce nel mondo del giornalismo, quando aveva solo sedici anni. Poi il debutto come critico cinematografico dell’Unità  a venti. Quindi il primo lavoro nel cinema accanto a Giuseppe De Santis, che gli affida le interviste di base necessarie per preparare Roma ore 11.
Poi i primi cortometraggi e il lavoro come sceneggiatore per De Santis e Carlo Ludovico Bragaglia. Il tutto mentre frequenta la mitica trattoria dei benemeriti Fratelli Menghi, quelli che, a sentire gli aficionados, non si facevano pagare mai, dove vede Giuliano Montaldo, Ugo Pirro, Franco Solinas, Peppe De Santis, Mario Monicelli, gli amici pittori. Finalmente, a trentadue anni, nel 1961, il primo lungometraggio, L’assassino, un bel thriller atipico dove, attorno al personaggio di Marcello Mastroianni, borghese cinico e spregiudicato, Petri intreccia critica sociale e suspense. Ma il film più suo di questi anni formativi è I giorni contati, con cui il regista offrì a Salvo Randone il ruolo di una vita, uno stagnino, in cui si può vedere il padre di Elio Petri, che sa di avere una malattia terminale e fa i conti con la vita che fugge. Seguirono
Il maestro di Vigevano, con Alberto Sordi, La decima vittima, dal racconto di Scheckley, dove Petri si diverte a giocare con i simboli e le mode della civiltà  dei consumi,
Un tranquillo postodi campagna, che affronta il tema dell’artista nel suo tempo, e un film militante, Documenti su Giuseppe Pinelli (1970). Il 1970 è anche l’anno di
Indagine su un cittadino al di sopradi ogni sospetto, un film che rovescia il tabù del potere, e parla all’Italia degli anni della strategia della tensione. Una provocazione, secondo molti, che rimanda a personaggi reali. Ma un successo internazionale che porta Petri all’Oscar. È il primo elemento di una trilogia sul presente italiano costruita attorno a quel formidabile attore e alter ego di Petri che è Gian Maria Volonté. Arriva poi La classe operaia va inparadiso, una satira della vita in fabbrica che accende molte polemiche (Jean-Marie Straub, da una tumultuosa proiezione al Festival di Porretta Terme, invitava addirittura a bruciare il film). E poco importa se conquista la Palma d’oro a Cannes ex aequo con Il caso Mattei di Rosi e fa trionfare il cinema civile italiano: la critica, anche a sinistra, è divisa e stranamente crudele contro il non allineato Elio Petri. Basti vedere quello che si legge in Sbatti Bellocchio in sesta pagina. Il cinema nei giornali della sinistra extraparlamentare: un’antologia di cattiverie ideologiche in genere senza firma (a cura di Steve Della Casa e Paolo Manera, è in uscita da Donzelli).
La “trilogia” continua nel 1973 con La proprietà  non è più unfurto, un apologo grottesco sul culto dell’avere, costruito attorno a Ugo Tognazzi. E si chiude nel 1976 con
Todo modo, dal romanzo di Sciascia: una commedia grottesca che in forma di metafora denuncia la continuità  del potere democristiano. Infine, dopo una limpida versione televisiva di Le mani sporche di Sartre, nel 1979 arriva Buone notizie, con cui Petri vuol dirci esattamente il contrario, che ci sono solo pessime notizie dal nostro mondo, e su cui annota: «Nell’ultimo periodo della mia vita ho fatto solo film sgradevoli… dove si rasenta lo sconfinamento della misantropia. E perché faccio film così? Evidentemente è per via di una netta sensazione di essere arrivato al punto in cui mi pare che tutte le premesse che c’erano quando ero ragazzo si siano proprio vanificate».
Petri si chiuderà  sempre più in se stesso, ferito e deluso dall’accoglienza che ricevono i suoi film, e dall’apparentemente irrimediabile situazione italiana.
Buone notizie, quelle buone notizie che non ci sono, doveva intitolarsi Prima di morire.
Petri, forse, sapeva dei suoi giorni contati.


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